Gus van der Baker lo chiamavano il negro blanco, perché era bianco come la porcellana ma giocava proprio come i negri. Estro, fantasia, immaginazione, gioia, follia, e un fisico che non lo abbattevi manco coi pallettoni da bisonte All’epoca i bianchi giocavano di tattica, di passaggi squadrati, semplici, precisi e efficaci. E generalmente vincevano. Troppo leziosi, questi negros. Troppo innamorati della palla e di mettersi in mostra.
“Sono foche ammaestrate,” diceva Romulo, l’allenatore dell’Atletico Poochera. “Se volessimo mettere su un numero da circo faremmo il pienone, ma a calcio, cristo!, a calcio per vincere devi buttare la palla in mezzo a quei due fottuti pali.”
Ma quelli non lo stavano a sentire e cinguettavano col pallone come ragazzini innamorati e Romulo sputava per terra qualche bestemmia, scalciava una bottiglia o il culo di qualche marmocchio che passava di lì per caso, e malediceva il giorno in cui aveva infilato il suo nome sotto quel dannato contratto con l’Atletico. Si diceva “Cosa mi pagano a fare se nessuno mi ascolta,” poi improvviso urlava: “Santos, porca puttana, passala quella cazzo di palla, passala!” e Santos non la passava, se la teneva stretta stretta sulla linea laterale e ci ballava una conga fino a quando qualcuno- un bianco- non arrivava in scivolata e buttava fuori campo la palla, Santos e la conga.
E allora Romulo ripartiva a bestemmiare, e su e giù e su e giù accanto alla panchina come una tigre allo zoo.
Erano partite che finivano 5 a 4, o 6 a 7, mai che la gara fosse condannata allo 0 a 0. Non era nemmeno una possibilità presa in conto. E intanto l’Atletico s’impaludava sul fondo della classifica. Sfornavano poesia, quelli, non assist. E per quanto ce la si voglia rigirare, la poesia del calcio non è mai esistita se non nei sogni dei nostalgici. Ma quelli non rimpiangono il calcio di una volta, rimpiangono la loro vita che se n’è andata. Perché il calcio è sempre stato buttare quella palla in mezzo a quei due pali e nient’altro.
Quel mese, oltretutto, Romulo l’avevano pagato in saponette. Il presidente della squadra, Raymond Salas, era arrivato un giorno agli allenamenti e gli aveva detto: “Senti Romulo, le cose non vanno molto bene, questo mese ti posso pagare, ma ti pago in saponette.”
“Cosa vuol dire in saponette?”
“Vuol dire che ho un camion di saponette. Ti posso pagare con quello.”
E dato che poco è meglio che niente, Romulo aveva accettato e un giovedì pomeriggio qualunque un camion era entrato in retro nel cortile di casa sua e aveva scaricato quattordicimila saponette. “Tanto non vanno a male,” gli aveva detto Salas prima di andarsene scuotendo la testa piena di tutti i suoi problemi.
Quindi Romulo, che era stato pagato in saponette, non era del suo umore migliore per sopportare ancora e ancora quei passettini inutili e quelle piroette senza senso. Per questo imprecava e bestemmiava e si chiedeva perché diavolo non se ne andasse a pescare il giorno della partita.
Poi Salas arrivò un giorno e gli disse “Hai un nuovo giocatore,” e gli presentò Gus van der Baker.
“Mi hai comprato un bianco…” disse Romulo tra le lacrime.
Ma Salas se n’era già andato. E questo avrebbe dovuto insospettire Romulo perché quello- Gus- era bianco come la neve, come la ceramica, come il latte, ma giocava più da negro di tutti i negros che avesse mai visto in vita sua. Gus infatti prese la palla e cominciò a fare certi giochetti e certi numeri che Romulo si mise a piangere davvero. Perché, si diceva, perché a me?, e buttava giù pillole per l’ulcera e calmanti che servivano a poco o niente.
E la risposta era facile, semplicemente perché Gus van der Baker era davvero quella roba lì. La sua forza stava nel fatto che non giocava a pallone, lui ci ballava assieme. Il difensore si perdeva, cominciava a guardare i suoi movimenti, il passo, la gamba, l’anca, e si innamorava di quella roba lì che faceva van der Baker e quando ormai era completamente ipnotizzato se lo ritrovava alle spalle.
Era impossibile fermarlo perché era impossibile non innamorarsi della sua bellezza. Sarebbe stato come sfregiare la Gioconda o una cosa del genere. Purtroppo anche Gus van der Baker era di un’inconsistenza totale. Per lui il goal era un accessorio, un mezzo per giocare a calcio, non il fine.
Il fine erano quelle giravolte che mettevano sottosopra lo stomaco di Romulo. Continuavano a perdere partite a ripetizione, ma lo stadio era pieno. La gente faceva la coda per vedere Gus partire palla al piede e inanellare una serie infinita di doppi passi; perché i tifosi dell’Atletico erano così, come i loro giocatori. Uno striscione in curva cantava “Si vive solo per la bellezza”.
Giocare contro l’Atletico a quell’epoca voleva dire farsi umiliare per novanta minuti e tornare a casa con due punti. Assolutamente imbarazzante sotto tutti i punti di vista.
Un giorno Robert Winter, che si portava dietro una reputazione da vero macellaio, se lo trovò davanti, il van der Baker. Al quarantesimo del primo tempo Gus non aveva ancora toccato palla. Galleggiava a metà campo come una foglia in uno stagno. Winter gli si avvicinò e disse: “Mi avevano detto che eri impossibile da marcare, ma mi sa che avevano esagerato.”
In quel momento arrivò una palla lunga in direzione di van der Baker, e Winter, che era tipo da disinteressarsi della sfera per abbattere direttamente l’uomo, allungò la mano per toccare la maglia di Gus, ma la mano gli andò a vuoto. Gus era cinque metri più in là col pallone nei piedi. Allora Winter alzò il naso per cercare la palla in cielo, e non c’era più. Che diamine era successo? Winter gridò ad Hackelmann, suo compagno di reparto, “Buttalo giù, diamine, buttalo giù!” ma Hakelmann era già a terra e van der Baker ballava qualche metro più in là. Winter gli si lanciò sotto come un toro furioso, ma ancora una volta Gus gli fece passare la palla tra le gambe, poi sulla testa e infine gli fece un numero che lo mise a sedere. Poi sollevò il pallone, lo palleggiò tre o quattro volte sul ginocchio e lo scalciò altissimo. La palla finì da qualche parte chissà dove mentre lui spalancava le braccia a prendersi tutti gli applausi e le grida entusiaste del suo pubblico.
Nell’intervallo l’allenatore dell’Internacional Barmera chiamò Winter e gli disse: “Che diavolo stai facendo? Devi fermarmelo quel numero 8!”.
“Io ci provo,” rispose Winter. “Io ci provo. Ma anche per buttarlo giù devo prima prenderlo, quel figlio di puttana.”
Così nel secondo tempo- l’Internacional vinceva già 2 a 0- si misero in quattro a marcarlo e Gus van der Baker li fece ammattire tutti e quattro. Non riuscivano a tenerlo, te lo aspettavi di qua e te lo ritrovavi di là. Era fenomenale. Con un mezzo tocco sbilanciava il difensore; e la cosa impressionante era la velocità e l’apparente semplicità con cui faceva tutto ciò.
A un certo punto, con palla lontana, Winter gli si avvicina da dietro e gli sferra un pugno secco nelle costole. Gus van der Baker, che giocava come un negro, ma era un mastino olandese da mille generazioni, si gira come lo avesse infastidito una zanzara e gli dice: “Questo non dovevi farlo.”
Andò in difesa, si prese la palla, e partì attraversando tutto il campo con gli avversari che lo inseguivano venti metri più indietro; li seminava come un contadino semina il grano, dietro di sé, così, a manciate. Saltò anche il portiere e la mise dentro piano piano, a porta vuota, come se avesse fatto entrare la nonna in chiesa alla messa domenicale. Ne fece altri tre e due volte spedì in rete i compagni.
La partita finì 6 a 2 con Winter che non riuscì neppure a rimediare un cartellino giallo e van der Baker che fece impazzire di gioia Romulo che, per una volta tanto, non aveva dato fondo alle sue pastiglie per l’ulcera. L’allenatore era in brodo di giuggiole, pensava che il vento fosse finalmente cambiato, che con quel negro blanco, da quel giorno in avanti, le cose sarebbero andate diversamente; avrebbero vinto il campionato. Lo avrebbero chiamato in Europa. La sua ulcera si sarebbe rimarginata e gli sarebbero ricresciuti i capelli. Invece niente, la settimana dopo era tutto come prima, come sempre. Lezzi, giravolte, grande poesia e inconcludenza totale. La squadra finì col retrocedere, l’anno dopo ottenne la promozione, poi retrocedette ancora, poi fu ripromossa. E continuò così, per un po’ di anni, galleggiando tra la serie cadetta e la prima divisione.
Senza onori, senza gloria.
Ma solo con un’immensa, incontornabile bellezza.