Terni, 3 giugno 2001. Un ragazzino entrò in campo per il suo esordio in serie B con la maglia del Treviso. Neanche il tempo di rendersene conto e negli spalti decine di tifosi, che avrebbero dovuto sostenerlo, raccolgono tutto, gli danno le spalle e se ne vanno.
Non c’era da stupirsi, nella curva del Treviso gli episodi di razzismo non sono una novità. Per Akeem Omolade, il ragazzino venuto dalla Nigeria, il giorno del coronamento del suo sogno non poteva essere più amaro: i tifosi della squadra per cui giocava non volevano un nero in formazione.
A Treviso in settimana qualcuno alza le spalle, qualche altro minimizza, il sindaco polemizza coi detrattori della tifoseria, qualche altro non ci sta. I compagni di squadra di Omolade sono arrabbiati, affranti. Ma non rassegnati. Nella consecutiva gara casalinga contro il Genoa, i biancocelesti rispondono ai loro squallidi tifosi con grande classe.
L’idea pare fosse venuta a Roberto Murgita, sposata da Minotti e Viviani, che ne parlarono col gruppo. Federico Smanio andò a prendere il materiale occorrente e il pomeriggio ecco messa a punto la risposta ai barbari: i calciatori del Treviso scendono in campo col volto dipinto di nero davanti agli spettatori dello stadio Tenni. Tutti, nessuno escluso. Anche l’allenatore Sandreani, lo staff tecnico e la panchina si dipinsero il viso di nero. In quel momento tutti erano fratelli di Omolade e se c’era da offendere qualcuno per il colore della pelle allora tutta la squadra era di colore.
L’iniziativa ricevette plausi e complimenti anche dall’estero, oltretutto Omolade segnò di testa il gol del momentaneo 2 a 1, che non bastò a risparmiare a Treviso la retrocessione in C1.
A 16 anni di distanza il razzismo nelle curve è ancora presente e i gesti eclatanti non sono mancati: Zoro voleva andarsene dal campo, Muntari invece se ne andò sul serio, Dani Alves mangiò una banana lanciatagli dagli spalti.
Il razzismo, nel calcio e nella società, va combattuto. Quel Treviso diede lezione di eleganza e civiltà.