Londra, Stadio di Highbury, 3 maggio 1998
Il gigante con la maglia numero 4 vede un buco nella difesa dell’Everton e ci si fionda dentro correndo a grandi falcate. Sembra quasi che i suoi si trovino sotto, e non in vantaggio per 3-0 ad un giro di lancette dal 90′, tanta è la rabbia, la determinazione agonistica, la forza di volontà con cui si butta in avanti il difensore centrale. Ha quasi trentadue anni, ma in quel momento corre come un ragazzino, come un’ala ventenne smaniosa di fare bella figura. Tony Adams corre come chi è riuscito a scappare dall’inferno e non ha alcuna intenzione di tornarci.
Londra Nord, novembre 1990
Quando riapre gli occhi dopo lo schianto, Tony vede le sagome sfocate di alcuni uomini chini su di lui. «Hey, ma questo è Adams dell’Arsenal!», esclamano increduli. Poi arriva il poliziotto che lo sottopone all’alcol-test, e il responso non ammette dubbi: il tasso alcolemico è quattro volte superiore al valore consentito. Il 19 dicembre viene condannato dalla Southend Crown Court: passa due mesi dietro le sbarre, il pilastro dei Gunners e della Nazionale inglese. Quando esce non solo riprende a giocare, ma contribuisce alla vittoria del campionato. Eppure il tunnel è stato appena imboccato: un tunnel che ha la forma del collo di una bottiglia, del fondo di una pinta di birra.
«Negli allenamenti che seguivano una sbronza, mi mettevo un doppio strato di indumenti: sudavo tutto quello che avevo bevuto e riuscivo ad andare avanti. Gli allenamenti mi davano la possibilità di fuggire da me stesso, bastava che ci si limitasse agli esercizi fisici e che Graham non tirasse fuori il pallone», scriverà Adams nella sua autobiografia, non a caso intitolata “Addicted”. Confesserà inoltre di aver disputato una partita della stagione ’93-’94 completamente ubriaco. Pochi giorni dopo, a Copenhagen, guiderà la squadra del suo cuore, l’unico club di cui vestirà la maglia in tutta la carriera, alla conquista della Coppa delle Coppe contro il Parma di Nevio Scala.
Quindi cadrà giù dalle scale e si spaccherà la testa, rimediando 29 punti di sutura. Il tutto – neanche a dirlo – da ubriaco marcio. Si ritroverà coinvolto in una miriade di altri episodi simili, compresa una scazzottata con dei tifosi del Tottenham insieme al compagno Ray Parlour. «Ubriacone, alcolizzato!», gridavano quelli. Tony non è mai stato uno stinco di santo, ma neanche un attaccabrighe. Colpa della bottiglia, che distorce e inganna e ti trasforma in qualcosa di estraneo persino a te stesso. «Bevevo per festeggiare i successi e per smaltire le delusioni, insomma bevevo sempre. L’alcol agiva per me come un anestetico per sfuggire dai sentimenti intensi».
Londra, Stadio di Wembley, 26 giugno 1996
I giocatori inglesi tornano mestamente nello spogliatoio, testa bassa e morale sotto i tacchi. Trent’anni dopo il Mondiale, sognavano di ottenere un altro glorioso successo in casa agli Europei, ma si sono appena arresi in semifinale alla Germania dopo i calci di rigore. Il Ct Venables fa loro i complimenti, perché nonostante la sconfitta hanno dato tutto. Ci sono Gascoigne, Seaman, i fratelli Neville, Shearer, Ince, Platt. Davanti a tutti, Tony – che di quella squadra è anche il capitano – si alza in piedi e confessa: «Sono un alcolizzato, voglio uscirne: rispettatemi».
Ammissione. È il primo dei Dodici Passi degli Alcolisti Anonimi: “Abbiamo ammesso di essere impotenti di fronte all’alcol e che le nostre vite erano divenute incontrollabili”. Chissà cos’è scattato nella sua mente, chissà qual’è stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso. Forse Adams ha preso davvero coscienza del problema quando suo padre, dopo l’ennesima sbornia, lo ha guardato dritto negli occhi e gli ha detto: «Tony, non sorridi più quando giochi a pallone».
Sette parole in totale, ma capaci di centrare Adams in pieno come un tir a tutta velocità. Non sorridi più quando giochi a pallone. Sbam!, dritto in faccia, come un gancio destro di Mike Tyson. Un bolide che ti tramortisce e allo stesso tempo ha il potere di ridestarti: a quel punto, o vai al tappeto una volta per tutte, o ti rialzi e combatti. Ma il ragazzone, nonostante le debolezze che lo fanno umano, è un lottatore che sa incassare i colpi ricevuti dalla vita.
A quel punto Tony, ormai trentenne, intraprende un percorso di disintossicazione ferrea. Dopo tre mesi di ricovero in una clinica, torna al centro della retroguardia dell’Arsenal: in panchina è appena arrivato un francese che ha lo stesso nome di battesimo di Lupin, tale Wenger. Le cose, all’improvviso, vanno bene, ma guai ad abbassare la guardia: quella contro l’alcolismo è una battaglia quotidiana, eterna, che ti porti dietro finché vivi. Puoi ricascarci in qualsiasi momento, ma ogni giorno passato lontano dalla bottiglia è una vittoria. Come quella che sta per arrivare il 3 maggio ‘98, sotto il sole tiepido del tardo pomeriggio ad Highbury…
Londra, Stadio di Highbury, 3 maggio 1998
L’autorete di Bilic e la doppietta di Overmars hanno già deciso il match a favore dei Gunners: si attende solo il triplice fischio per dare il via alla festa, perché l’Arsenal con questo successo sta per laurearsi Campione d’Inghilterra. E pensare che a marzo i bookmakers avevano pagato alcune scommesse che davano il Manchester United vincitore della Premier. Poi però i ragazzi di Wenger hanno messo in fila nove successi di fila, compreso l’1-0 in casa dei Red Devils, e da quel momento tanti saluti a Ferguson: i londinesi hanno messo la quarta e sono passati al comando. Manca un minuto alla festa attesa sette anni, quand’ecco sbucare quasi dal nulla il ragazzone con il numero 4, che si lancia di prepotenza verso l’area dell’Everton…
Platt ha vinto un contrasto sulla linea di centrocampo. Il pallone è finito tra i piedi di Steve Bould (che nel giro di qualche anno diventerà il secondo di Wenger) e a quel punto Tony si è lanciato in avanti. “Ma dove va?”, si chiedono tutti con un sorriso, ché tanto ormai la partita è vinta e se il capitano vuole andare a farsi una scampagnata, perché impedirglielo? Probabilmente spedirà il pallone ricevuto da Bould in curva, ma a chi importa? Invece Tony lo addomestica con il petto proprio nel momento in cui sta entrando in area. Mossa da attaccante vero, ma mica è finita qui. Aspetta che la sfera tocchi terra, quindi, di controbalzo, la colpisce di collo sinistro: è un tiro che ti aspetteresti da un Wright, un Bergkamp, o – di lì a poco – da un Henry. Invece è Tony Adams, professione difensore centrale, trentadue anni, segni particolari: ex alcolizzato. L’impatto col pallone è perfetto, il portiere avversario non può nulla: la sfera si insacca mentre il telecronista grida “Can youbelieeeeveit?!”. Puoi crederci?
Tony ha gli occhi chiusi, perché si trova proprio nell’unico spicchio di Highbury dove battono ancora i raggi del sole. Si gode la sensazione di tiepido calore sul volto. Quindi apre gli occhi. Un attimo prima che Wright e Overmars gli si lancino addosso per abbracciarlo, le labbra di Tony si distendono. Quattro anni dopo quella frase del padre, quella che lo ha colpito come un pugno ben assestato, Tony torna a sorridere mentre gioca a calcio.
Scrittore per necessità dell’anima, giornalista per vocazione, sognatore di universi paralleli, non ha mai ceduto alla realtà. Nostalgico all’ultimo stadio, posseduto dal “Sehnsucht” Romantico e innamorato della Bellezza, ritiene che il rock’n’roll, la Roma, Shakespeare e la carbonara siano le quattro cose fondamentali per cui valga la pena vivere.