Mentre l’angelo nero in maglia bianca raccoglie il pallone per sistemarlo sul dischetto, Alberto pensa al salmone. Sì, ha davanti a sé Edson Arantes do Nascimento, meglio noto al mondo come Pelé, ma lui pensa ai salmoni. Conosce la loro storia, perché li ha venduti – insieme ad orate, spigole, calamari e “mazzancolle” – dai dodici ai venti anni, quando lavorava al banco del pesce della zia in Piazza Vittorio.
A Roma di campioni ne abbiamo visti pochi, nel corso di questi novant’anni. Abbiamo visto, invece, molti mestieranti, per così dire: professionisti che non erano i Falcao, i Batistuta, i Totti e i Conti. Eppure li abbiamo amati. Non tutti, sia chiaro. Ma quelli che hanno dato l’anima per la maglia, quelli che si sono sempre battuti al di là delle loro doti tecniche, noi tifosi non li dimentichiamo. La Roma degli anni ’90 non è mai stata competitiva per lo Scudetto: il massimo che sia riuscita a fare è stata raggiungere una finale di Coppa UEFA e vincere una Coppa Italia. Anno domini – per entrambe – 1991.
Francesco Totti, per me, c’è sempre stato. Era poco più che un ragazzino quando mi innamorai della Roma. Fu un giorno bellissimo e triste, tipicamente giallorosso: erano i quarti di Coppa Uefa, avevamo perso 2-0 a Praga contro lo Slavia. Andammo sul 2-0, poi ai supplementari segnammo il terzo gol, ma a pochi minuti dalla fine un tiraccio di un ceco ci buttò fuori. E io, per la prima volta, piansi per la Roma. Era in campo da titolare due settimane dopo, quando convinsi mio padre a portarmi allo Stadio Olimpico: giovane diciannovenne di belle speranze svezzato da Mazzone, fornì un assist a Moriero e vincemmo 2-1 e mentre tornavo di casa mi sentivo il bambino più felice del mondo. Avevo visto la Roma, avevo visto la Sud, avevo sentito i cori e i petardi e mi si erano drizzati i capelli alla base del collo.
Nelle favole che ci leggevano da bambini, il Principe alla fine, in un modo o nell'altro, riusciva sempre ad avere la meglio: sconfiggeva il mostro cattivo che teneva prigioniera la Principessa, la liberava dall'incantesimo con un bacio e, infine, la sposava. Poi, con il passare degli anni, abbiamo imparato che le cose quasi mai vanno così, nel mondo reale: la vita ci ha insegnato che le storie d'amore terminano con la stessa facilità con la quale sono nate; senza un perché o un percome. Succede e basta. Forse perché non esistono Principesse come quelle che immaginavi a quattro anni, né draghi o orchi dalle cui grinfie trarle in salvo; perché non cavalchi un cavallo bianco e non puoi contare sull'aiuto di un Mago. Eppure qualcosa rimane, al termine di una storia d'amore: il magone, forse, oppure il rimpianto; magari il rancore, o la semplice consapevolezza che, pur con tutti gli sforzi, non sarebbe potuta andare diversamente. Nella favola che andiamo a raccontarvi, ad esempio, il finale lascia l'amaro in bocca e gli occhi pieni di lacrime, e forse è proprio questo che la rende così bella.
C'è stato un tempo, a cavallo degli anni '90, in cui Firenze vantava la residenza del più forte attaccante del mondo. E non era certo un'eresia, anzi, perchè a sentire quella frase nessuno rideva, nessuno si scandalizzava, tutti, dal primo all'ultimo avversario, avevano paura di quell'incredibile attaccante portato in riva all'Arno da Mario Cecchi Gori, l'uomo che intendeva rifare grande la Fiorentina. E non si dia troppo peso a quella leggenda, che da decenni ormai lo disegna come uno sprovveduto aggregato quasi per caso a Diego Latorre, talentuoso argentino che con la casacca viola non si vedrà praticamente mai: anzi, si ricordi a questi cantori del nulla che Gabriel Batistuta prima di arrivare a Firenze era stato capocannoniere della Copa América, e, anche se dalle parti di Ponte Vecchio tutti temevano un Dertycia-bis, sarebbe assurdo dire che su di lui non ci fossero aspettative.
Roma, 10 agosto 1980: una calda estate si prepara ad accogliere la notte di San Lorenzo. Quella delle stelle cadenti, dei desideri espressi, delle colline che si fanno sfondo di romantiche serate col naso all'insù. Così, anche i cittadini capitolini, come gli altri, alzano lo sguardo verso il cielo, con la speranza di vedere realizzati i loro sogni più belli. Ma in questa parte dell'urbe non ci sono colline, nè tantomeno stelle cadenti. Il romanticismo, sì, quello c'è, espresso in larga scala da quelle 5000 persone che con passione scrutano il cielo di Fiumicino, col cuore che palpita in attesa di scorgere nel cielo quel sogno coltivato per un'intera estate: «Eccolo, è lui, quello è l'aereo che viene da Rio. Lì dentro c'è Paulo Roberto Falcão».