Vennero fuori dalla nebbia. Come in un horror-movie di serie B. Gli altri non avevano neanche il tempo di rendersi conto di cosa diavolo stesse accadendo, che quelli crossavano e tiravano in porta, si sovrapponevano sulle fasce e dribblavano i rossi come birilli.
Solo arancio. A perdita d’occhio. E solo profumo. Così intenso da penetrare in ogni piccola fessura della più piccola casa del più lontano paese. Il campo di tulipani che ho davanti agli occhi è così: perfetto, preciso, esatto
«È bello vederti». La storia, o almeno quella parte che infiamma gli appassionati e riempie gli almanacchi, inizia con queste tre semplici parole. È il 14 dicembre 1986, in programma al De Meer c'è Ajax-Roda. Dennis si sta recando allo stadio in macchina, seduto sul sedile posteriore. Alla guida c'è papà Wim, emozionato come non mai, mentre mamma Tonny è al suo fianco, e per nulla al mondo si perderebbe l'esordio da professionista del figlio. Certo, lo avrebbe preferito ginnasta, come lei da giovane, ma prima o poi bisogna anche accettare la realtà, che tutto sommato non è poi così male. L'ascesa di Bergkamp è stata voluta e guidata da Cruyff in persona. Lo ha scrutato a lungo, ne ha esaltato i pregi e limato i difetti. Lo ha bastonato quando ce n'era bisogno, fino a "retrocederlo" di un gradino nelle giovanili per motivarlo, ed esaltato quando il lavoro iniziava a dare i suoi frutti. E ora lo porterà con sé in panchina, con l'obiettivo dichiarato di fargli giocare uno scampolo di partita.
"È morto Johan Cruijff". Me l'ha detto un collega, nel primo pomeriggio, come un rimbalzo sordo tra la noia e i tramezzi. "Era forte, vero?", è stato il suo secondo segnalibro. Lui ha dieci anni più di me, e anche se non coltiva la mia stessa passione per ciò che odora di canfora ed erba, sono convinto esistano veroniche, dribbling e palloni che ognuno dovrebbe conoscere a memoria. Come i sette re di Roma. O l'Adidas Telstar, il pallone dei mondiali del 1974.
Si dice spesso che ogni partita ha una storia a sè. Ce ne sono poi alcune, che in soli 90 minuti riescono a raccontarne una serie infinita, altre ancora che dipingono nei minimi particolari l’essenza di un giocatore, che fuoriescono dalla narrazione collettiva per diventare un’esperienza intima, personale, che va raccontata in punta di piedi, quasi come a non voler disturbare, ma che diventa il modo migliore in cui un appassionato di calcio può rendere il giusto tributo ad un attaccante, ad un uomo, che una terribile malattia ha strappato prematuramente a questo mondo. Così, quel Fiorentina-Inter del 12 febbraio 1989 esce dagli almanacchi e diventa lo sfondo sul quale raccontare la storia di Stefano Borgonovo, attaccante lesto ed opportunista, con una spiccata ossessione per la porta avversaria