«Robert Pires! Robert Pires! Robert Pires!» La sera del 7 aprile 2009 l'Emirates Stadium non sembra conoscere altri nomi. Prima, durante e dopo la partita di Champions League, quell'urlo esplode a cadenza regolare dalla bocca di ogni singolo tifoso dell'Arsenal, che lo grida al cielo con tutta la passione che ha in corpo. Robert Pires ascolta, si guarda intorno e accenna un sorriso, con le emozioni che danzano a metà tra il finto distacco e una malcelata commozione. D'altronde, in palio c'è l'accesso alla semi-finale di Champions League, e lo spazio per le emozioni non dovrebbe essere contemplato. Dovrebbe, si, perché stasera non si può parlare solo di calcio. Si parla di vita, e allora si, le gambe tremano davvero.
Mi chiedevi: “che cosa continua, quando agli uomini tocca di andare?” ecco, adesso avrei la risposta: si continua ad amare. [Gigi Meroni - Filippo Andreani] Tutto finisce sulla strada per Mérida, ancora nei pressi di Toledo. Sono passati 25 anni da quel giorno. Stavi tornando da Madrid, dove avevi appena visto il tuo Real Madrid battere il Torino nell’andata della semifinale della Coppa Uefa del ‘92. Era il 2 aprile, e quello scherzo, fatto con un giorno di ritardo, ammutolì un popolo, il tuo.
Madrid, stazione di Puerta de Atocha Ottobre 2008 «Que lees?». Una voce roca e impastata mi desta all’improvviso dalla lettura che mi aveva isolato dal baccano e dal viavai tipico di una stazione ferroviaria. Sono seduto in prossimità della grande aiuola al centro di Puerta de Atocha, dove troneggiano palme ed altre piante tropicali che nell’entroterra spagnolo sono a dir poco fuori luogo, ma che lì – chissà come mai – sembrano perfettamente a loro agio. Volto la testa in direzione della voce e mi trovo di fronte un uomo con lunghi capelli grigi raccolti in una disordinata crocchia sulla nuca, che mi rivolge un sorriso pieno di buchi: avrà sì e no una decina di denti in bocca, puzza parecchio e ha gli occhi che sembrano coperti da un velo giallognolo.
La Storia in qualche modo funziona come il calcio. Ci sono lunghi momenti interlocutori, dove non succede niente, e poi ci sono brevi istanti in cui tutto accade e cambia per sempre quello che era prima, trasformandolo e dandogli una nuova forma, una differente condizione. La Storia verticalizza gli eventi e li trasforma in rete. Nell’aprile del 1991, uno sterminato mare verde cresceva florido nelle pianure che circondano Vukovar. «Era un anno fertile per il grano, come mai in passato: era tutto in abbondanza». La Fortezza del Lupo (traduzione letterale del nome della città) dominava le terre circostanti, fino alle foreste dalle quali arriva ancora oggi uno dei legnami più pregiati per le botti nelle quali invecchiano i nostri vini: il rovere di Slavonia.
orri incontro al pallone, colpiscilo di testa come solo tu sai fare. Nessuno al mondo sa essere così chirurgico: non esiste attaccante che possa colpire in maniera così spietata e così elegante. Come quella notte al Bernabeu. Sì, quella del “Volo dell’Angelo”, quella in cui il Milan è diventato veramente grande. Cross di Tassotti dalla destra, ma è a mezza altezza e il difensore ti sta addosso: liberarsene non è possibile, tirare verso la porta non è possibile. Tu stacchi, o meglio ti tuffi verso la sfera
C'è una leggenda nel calcio che, come tutte le leggende, nasce da un fondo di verità. La credenza popolare è la seguente: se una finale si decide ai rigori, sbagliare il primo è spesso di buon auspicio. La Roma lo sa bene, perché il 30 maggio del 1984 il primo rigore il Liverpool lo sbagliò, ma alla fine si portò via la Coppa dei Campioni. E lo stesso capitò alla Steaua contro il Barcellona due anni dopo, nella peggior serie di tiri dal dischetto che la storia del calcio ricordi (solo due, entrambi dei romeni, a segno su un totale di otto calciati).
«Corri, George, corri. Devi saltarli, schivarli, dribblarli, forse persino passare loro attraverso: l'importante è che tu abbia la forza di superare questo muro portoghese e di andare in porta. Fallo per te, per me, per Bobby (anche se non vi sopportate...), ma soprattutto fallo per i ragazzi del '58. Loro sono morti sognando di essere dove sei tu adesso, Georgie: quindi niente cazzate delle tue, per favore. Mostra una volta per tutte al mondo per quale dannato motivo ti ho voluto a tutti i costi allo United!».
Il cancello di ferro cigola sui vecchi cardini, rompendo il silenzio bianco privo di suoni. La ghiaia scricchiola sotto i piedi, avanzando nel piccolo ellisse protetto dai cipressi, e nell’aria, indefinito, avverti improvvisamente un profumo di rose. Sono piante che resistono al freddo, tenaci alle intemperie. Le volle piantare qui la poetessa Elizabeth Barrett Browning il cui monumento funebre emerge, decorato dall’immagine di una lira, nell’atmosfera ovattata e onirica. Eppure poco sotto esplode la cacofonia di Firenze e dei suoi viali di circonvallazione saturi di veicoli. Ma il cimitero degli inglesi in Piazza Donatello è un’isola, un grumo di pace in mezzo al rumore. Nessuno si preoccupa se è aperto o chiuso, quali sono gli orari per poterlo visitare, e sopratutto se ci sono orari. Nessuno forse sa che c'è, nonostante le tombe si vedano molto bene anche da fuori, infisse in una collinetta simile a quella di Spoon River, che d’inverno si perde nel buio e d’autunno nella foschia. Sarà per via che siamo un po’ superstiziosi e abbiamo paura dei morti.
Lahti, nel sud della Finlandia, è un centro industriale posto sulla riva meridionale del lago Vestirvi, a cavallo di una serie di colline create dal Salpausselkä, l'ultima glaciazione. Chi nasce da queste parti di solito impazzisce per l'hockey sul ghiaccio, sport nazionale finlandese, anche se in città tutti si sentono particolarmente orgogliosi del trampolino triplo - il Salpausselkä, appunto - che in diverse occasioni è diventato l'attrazione principale dei campionati mondiali di sci nordico. Certo, viene da sé che qui qualsiasi attività sportiva debba essere obbligatoriamente legata alla neve, la cui stagione dura senza soluzione di continuità da novembre fino a marzo, con temperature che vanno da 0 a -30° centigradi.