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Stefan Effenberg, dietro gli occhi azzurri

10th Ago 2016
Stefan Effenberg, undici metri e Santiago Canizares. Per dimenticare quella Coppa persa all'ultimo, per cancellare il prezzo di quel dito medio
Stefan Effenberg, dietro gli occhi azzurri
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C’è una leggenda nel calcio che, come tutte le leggende, nasce da un fondo di verità. La credenza popolare è la seguente: se una finale si decide ai rigori, sbagliare il primo è spesso di buon auspicio. La Roma lo sa bene, perché il 30 maggio del 1984 il primo rigore il Liverpool lo sbagliò, ma alla fine si portò via la Coppa dei Campioni. E lo stesso capitò alla Steaua contro il Barcellona due anni dopo, nella peggior serie di tiri dal dischetto che la storia del calcio ricordi (solo due, entrambi dei romeni, a segno su un totale di otto calciati).

Lo sa anche il capitano del Bayern Monaco, forse, mentre si avvicina all’area di rigore il 23 maggio 2001. Di fronte, tra i pali, c’è un biondo come lui; ma un finto biondo. E’ spagnolo, si chiama Santiago Canizares e ha fama di essere uno folle: lo sguardo da psicopatico non gli manca, in effetti. Ma figurarsi se il numero 11 del Bayern ha paura! Va per i trentatré anni e non è certo uno stinco di santo, questo tedesco con espressione “paracula” e cattiva al tempo stesso. Posiziona il pallone esattamente come ha fatto ad inizio del secondo tempo, quando c’era da pareggiare la rete (sempre dal dischetto: è una gara che si decide tutta di rigore, questa) di Gaizka Mendieta.

Siamo a San Siro, ma il capitano dei tedeschi, mentre prende lentamente la rincorsa, torna con la mente a Barcellona: è un flashback di quelli da film, quando il protagonista, nel momento decisivo della pellicola, rivede tutta la sua vita a velocità supersonica. E’ un momento che dura oltre trent’anni. Stefan Effenberg – perché così si chiama il biondo con la maglia numero 11 – rivede tutto: i suoi inizi, da bambino, ad Amburgo, la trafila nelle giovanili prima di approdare al Borussia Monchengladbach, la prima avventura con il Bayern e quindi quella italiana, con la maglia della Fiorentina, che comprenderà anche un anno (da capitano) in Serie B, il ritorno a Gladbach.

EffenbergMa ci sono due momenti sui quali Stefan “il cattivo” si sofferma un po’ più a lungo. Uno risale ai Mondiali del 94‘: la Germania sta giocando e vincendo contro la modestissima Corea del Sud, quando il CT Berti Vogts lo richiama in panchina. Chissà cosa sente dagli spalti, magari degli insulti. Oppure vuole semplicemente sfogare l’adrenalina che ogni calciatore accumula durante un match, figurarsi quando si tratta della più grande competizione del globo. Fatto sta che rivolge al pubblico un netto ed inconfondibile “Stinkefinger”, il dito medio, che, a qualsiasi latitudine, significa sempre la stessa cosa: “fatemi il favore di recarvi al più presto nel luogo ove sono soliti riunirsi coloro che non godono di particolare stima”. Possiamo dirlo? Li manda affanculo, ecco. Vogts, persona che ha lo stesso sense of humour e la stessa flessibilità di un baobab secolare, lo spedisce dritto a casa e, da quel momento in poi, non lo convocherà mai più. Stefan riuscirà a collezionare solo altre due presenze con la maglia della Germania, ma si tratterà solo di amichevoli.

Gut gemacht – Ben fatto – Stef! ben fatto davvero. Complimenti!

EffenbergL’altro episodio sul quale la sua memoria indugia con altrettanto dolore risale alla già citata notte di Barcellona, due anni fa, quando il Bayern Monaco è a due minuti dal diventare campione d’Europa. Insieme ai compagni, Stefan è riuscito in qualche modo a tenere a bada quei maledetti cicloni dei “Calypso Boys”, e lo United di Ferguson è destinato a capitolare in virtù del gol in avvio di gara di Mario Basler. Si soffre, come è giusto che sia nei minuti finali quando sei avanti di un gol: il forcing, lo chiamano ormai tutti; l’assalto dettato dalla forza della disperazione. Poi succede che difendi male – anzi, malissimo – sugli sviluppi di un corner: quel gallese con l’11 tira una ciabattata destinata fuori, ma gli dei del calcio, quei maledetti che sembrano avere una particolare simpatia per lo scozzese sulla panchina dei Red Devils, trasformano quel pallone in un assist per Teddy Sheringham, ed è 1-1. Ma non basta. No, perché così il dolore si potrebbe persino assorbire. Però c’è un altro angolo per loro, un minuto e mezzo dopo. E stavolta qualcuno spizza la palla di testa e quel norvegese maledetto con la faccia da bambino sta lì e la appoggia sotto la traversa e senti che il cuore non reggerà, stavolta no, non può reggere.

Invece ha retto. Oddio, ce ne è voluto, di tempo, per riprendersi da un colpo del genere. Calcisticamente parlando, non ci si può immaginare un dramma più grande. Eri lì, ce l’avevi fatta, percepivi addirittura la superficie liscia e argentea della Coppa sotto i tuoi polpastrelli, prima che quei tizi avessero -diciamocelo, dai: a Stefan piace parlare e parlarsi chiaro, senza mezzi termini- la più grande botta di culo che questo sport possa raccontare.

EffenbergE ora sei lì, Stef, due anni dopo. Perché il tempo, che sa essere tiranno, ma anche gentiluomo, ti concede una seconda chance. Mandiamo a meretrici anche questa? Dopo che ci siamo tolti la soddisfazione di buttare fuori Sir Alex e soci ai quarti? Dopo che Elber ha preso a pallonate il Real campione d’Europa in carica nelle semifinali? Dopo che Kahn ha parato il rigore di Zahovic e deviato sulla traversa quello di Carboni? Se segni adesso, sarai avanti nel punteggio per la prima volta da quando ha avuto inizio la partita. Il finto biondo potrebbe intuire che tirerai dalla parte opposta rispetto al rigore calciato al 50′, potrebbe leggertelo negli occhi. Ma tu hai un vantaggio: hai gli occhi azzurri, di ghiaccio, e come cantavano gli Who «no-one knows what it’s like to be the bad man, to be the sad man, behind blue eyes». Nessuno sa cosa significhi essere l’uomo cattivo, essere l’uomo triste, dietro gli occhi azzurri.

Il finto biondo intuisce, ma lo tiri talmente bene, quasi senza rincorsa, ad incrociare, forte: non lo parerebbe mai, nemmeno in un milione di anni. Nemmeno se avesse dei razzi su per il… beh, ci siamo capiti. Tutto sotto controllo, puoi ancora farcela, Stef. Ora preghi sant’Oliver Kahn da Karlsruhe. Ecco, per esempio, questo argentino che sta per tirare… Pellegrino… rincorsa troppo lunga, gambe come un fenicottero, difensore centrale… Kahn può prendergliela.

E quando vedi il tuo compagno fare un balzo da gatto sul pallone, capisci che è fatta. Capisci che Barcellona ’99 non conta più niente e lo stesso vale per Berti Vogts che preferisce convocare Freund e Eilts e Todt e Ziege e Strunz e Bode. Non conta più niente lo “Stinkefinger”, né quel norvegese con un nome impronunciabile persino per un tedesco. Conta solo Kahn che corre verso i tuoi compagni e i tuoi compagni che corrono verso di lui e la panchina che si lancia su entrambi. Tu spalanchi le braccia, gridi e crolli in ginocchio. “Gut gemacht, Stef!”, e stavolta non c’è ironia. Adesso la senti davvero, la superficie liscia dei manici della Coppa: non è come a Barcellona, ora è reale. Stavolta nessuno può portartela via. Adesso, per la prima volta, tutti possono leggere dietro i tuoi occhi di ghiaccio: e mentre lo fanno si rendono conto all’istante che forse no, in fondo non sei così cattivo.

Lorenzo Latini



Scrittore per necessità dell’anima, giornalista per vocazione, sognatore di universi paralleli, non ha mai ceduto alla realtà. Nostalgico all’ultimo stadio, posseduto dal “Sehnsucht” Romantico e innamorato della Bellezza, ritiene che il rock’n’roll, la Roma, Shakespeare e la carbonara siano le quattro cose fondamentali per cui valga la pena vivere.

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