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Stan McPunklet Stadium (3° parte)

11th Gen 2019
Stan McPunklet è in campo, contro ogni pronostico, a dispetto della legge a rischio di mettere in pericolo la propria libertà per tanto, troppo tempo
Stan McPunklet Stadium (3° parte)
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(Prosegue da 2° parte)

I ragazzi ci misero un attimo a realizzare quel che stava succedendo. Si erano già rassegnati alla sconfitta senza di lui e, all’improvviso, quella comparsa ripompò sangue e speranza nei loro cuori. Fu Brady il primo a riprendersi: “Diamine, ha ragione! Che aspettiamo!” e allora tutti quanti a legarsi gli scarpini, a tirarsi su i calzettoni, a darsi risonanti colpi sul torace gridando: “Andiamo, cazzo, andiamo!”

Mentre nello spogliatoio accanto, quelli del Peackok, che stavano ridendo e scherzando come se il premio partita fosse già nelle loro tasche, la macchina nuova nel loro garage, e la coppa nella bacheca della società, sentirono quelle urla bestiali e si chiesero cosa diavolo stesse capitando.

Questo, subito prima del boato. Dell’esplosione. Le pareti dello spogliatoio del Peackok tremarono, le sacche- appoggiate sulle panche, caddero a terra; James Fullman si gettò sotto il lavandino temendo il terremoto e Whrist si aggrappò al crocefisso appeso al collo e si mise a pregare, Ti prego Gesù mio, ti prego salvami, prima di rendersi conto che erano i tifosi sulle gradinate a scuotere lo stadio e fargli piegare le gambe.

“Ma che cazzo…”

Era McPunklet appena uscito dal tunnel degli spogliatoi. Quando i tifosi lo videro, la sorpresa e la gioia erano diventate incontenibili. Ecco cos’era successo. Così, quando il Peackok scese in campo, i giocatori si ritrovarono catapultati nel ventre di un girone infernale assediati da tamburi, urla, e stelle filanti incendiarie che piovevano da ogni dove sulle loro teste.

“Col cazzo che gioco!”, “Quelli ci ammazzano!”, dicevano terrorizzati. Allora l’allenatore andò a chiedere all’arbitro di sospendere la partita per ragioni di sicurezza, ma l’arbitro rifiutò. “Finché ci sono io, si gioca anche sotto le bombe”, disse. E non scherzava: era stato lui ad arbitrare un Forest City- Blackford durante il bombardamento nazista del ’44. E in confronto alle bombe naziste, diceva, quella folla sugli spalti era la processione dei penitenti la domenica delle palme.

Così la gara cominciò, ma i giocatori del Peackok se la facevano sotto, aveva gambe molli e cuore di burro e ogni passaggio diventava un errore, ogni intervento era anticipato, ogni tentativo di tiro abortito sul nascere. La semplice visione di McPunklet a centrocampo, che troneggiava, con gli occhi iniettati di sangue, la schiuma alla bocca, li atterriva.

Erano come cani davanti all’eroico Achille.

McPunklet vide il pallone arrivare in direzione di Whrist e con un balzo, gli si avventò sopra in scivolata; sradicò la sfera dal terreno e mandò Whrist gambe all’aria. Si rialzò, McPunklet, il pallone  incollato al suo piede. Si alzò e si fermò un istante. Un lunghissimo istante. Dannatamente lungo quando hai migliaia di persone che urlano come diavoli tutt’attorno a te. Restò piantato lì sulla sua tre quarti e guardò con sfida gli avversari. Quattro erano attorno a lui, ma nessuno osava andargli sotto. Allora lui disse “Vigliacchi”, e sputò con disprezzo per terra, e partì, palla al piede, verso la porta del Peackok. Solo allora, soltanto in quel momento, come se si svegliassero da un sogno, i difensori gli si lanciarono dietro, ma McPunklet era imprendibile quel giorno. Perché il Dio del calcio aveva deciso di fargli un regalo immenso. Lui, il centrocampista quadrato, quello dai piedi di piombo, quello tutto muscoli e grinta e tecnica zero, lui saettò in slalom tra gli avversari attoniti che non riuscivano a fermarlo; sbilanciati, in controtempo, uno via l’altro, li lasciò a terra, ubriachi e increduli, e poi al limite dell’area partì dal suo piede quel tiro dolce e delicato che volò come una colomba a superare il portiere qualche metro colpevolmente fuori dai pali, e il pallone fece una tenera carezza alla traversa per perdersi infine nell’abbraccio sublime della rete.

Venne giù lo stadio.

I tifosi del Middletown vissero quel che fin da bambini avevano creduto impossibile. Vedere la loro squadra vincere un trofeo. Vedere i loro giocatori da quattro soldi, semiprofessionisti che si allenano la sera dopo otto ore di turno al macello o alla fabbrica di trattori, vederli prendere a calci i milionari del Peackok. Fu una gioia che avrebbero raccontato ai loro figli e ai loro nipoti. L’avrebbero trasformata in mito, in leggenda, e al centro di quel mito, ci sarebbe stato l’eroe: McPunklet, solo contro tutti. E gli avrebbero detto, ai ragazzini con la bocca spalancata, gli avrebbero detto che McPunklet non fece una piega neppure quando al trentesimo del secondo tempo il campo venne circondato da un cordone di polizia. Fitto, serrato, attraverso cui non sarebbe passata neanche una mosca col culo stretto. E che al centro del cordone c’era lui, il capo dei secondini di Cloverhill, con un sorriso cattivo, che massaggiava il manganello di cuoio dietro ai suoi occhiali da sole.

Gli racconteranno che McPunklet non fece una piega e che, anzi, si lanciò nell’area avversaria pochi minuti prima della fine e, su calcio d’angolo, colpì il pallone di testa così forte, e preciso, che il portiere cadde per la seconda volta in ginocchio, sconfitto. E che tutta Middletown, dalle case di Howth, ai sobborghi di Stonefall, dal centro commerciale di Connoly alla chiesa di Sant’Elmo, dalle casalinghe ai disoccupati, dai giocatori di biliardo agli operai, dai froci, alle puttane, ai drogati, ai preti, tutta l’intera città pianse di gioia abbracciandosi sulle gradinate, e nelle strade, e sugli altari, e nelle cucine, e nei pub. Middeltown piangeva di gioia mentre nei quartieri chic del Peackok si diceva “E’ uno scandalo”, “L’arbitro avrebbe dovuto interrompere l’incontro!” e si consumava, con la terza e la quarta rete, la peggiore disfatta della loro storia.

Così diranno a quei ragazzini, e gli racconteranno, poi, che al triplice fischio, i poliziotti entreranno in campo e circonderanno McPunklet, che gli metteranno le manette ai polsi e che il capo dei secondini gli tirerà una manganellata nello stomaco. E allora diranno che McPunklet si piegò in due ma dicendo: “Te lo puoi mettere in culo, quel manganello di merda…” e che allora un altro colpo gli arriverà sulla schiena e un altro sulla testa, e che McPunklet cadrà in ginocchio. Diranno che qualcuno lo prese a calci. Che la folla e i giocatori del Middletown, tenteranno di intervenire ma che la polizia sparerà proiettili di gomma. Che colpirà, che ferirà gente. Che il pestaggio di McPunklet continuò per un tempo indeterminato. E che lo portarono via trascinandolo per le braccia privo di sensi. Diranno che qualche giorno dopo verrà data notizia del suo decesso, per cause ignote, nell’infermeria del carcere. Stan McPunklet che aveva segnato due reti nella finale della coppa di lega.

E allora racconteranno ai figli, e ai nipoti, che non c’è felicità e non c’è giustizia quando sei nato dalla parte sbagliata della società. E spiegheranno perché il loro stadio sia intitolato alla sua memoria. E perché quel campo, spelacchiato e polveroso, campo da risse di terza categoria, campo infame e vergognoso per giocarci una partita di calcio, andrà per sempre difeso contro ogni abuso e ogni ingiustizia con le unghie e coi denti nei secoli dei secoli.

Amen.

Francesco Scarrone



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