Quando iniziò il processo a Stan McPunklet, una folla proletaria e schiamazzante stava schiacciata lungo le transenne del palazzo di giustizia. Sputava la propria rabbia contro un imponente cordone di polizia che la separava dal tribunale. Così aveva deciso il giudice Reichman che presiedeva il processo, dopo che un gruppo di tifosi del Middeltown si era alzato in aula gridando: “Fottiti figlio di puttana!”, “Ridacci Stan!”, “Tua moglie è una gran vacca!”. E altre robe del genere.
Perché c’era di mezzo la finale di coppa di lega fra due settimane, quella contro il Peackok.
Stan McPunklet era basso, tarchiato, privo di collo e tozzo come un barile di gin. Ma tignoso a non finire. Facile alla rissa e a scazzottate nei pub, non era raro si presentasse il sabato in campo col viso incerottato e il polso fasciato stretto per celare una distorsione alla mano.
Certo, a volte gli diceva male, come quella volta che s’era piazzato sotto il naso camuso di un energumeno sibilandogli sul mento “Dì a tua madre che l’ultima volta si è dimenticata di darmi il resto”. L’energumeno, bontà sua, era César Clayton, il peso massimo squalificato a vita dal ring per aver pestato l’arbitro nell’incontro per il titolo mondiale del ’64.
McPunklet mangiò brodino per settimane. Ciononostante non si lamentò mai, anzi, sul campo abbaiava e mordeva più di prima. Segnò anche sei reti, in quel periodo, cosa inusuale per uno come lui nato con piedi triangolari. Insomma, per farla breve, un Middeltown senza McPunklet, semplicemente non era il Middletown. E tutti lo sapevano. Sopratutto quelli del Peackok. Per questo si pensava che l’arresto e il processo fossero stati orchestrati a dovere.
Ora, mentre le forze dell’ordine cercavano di tenere sotto controllo una situazione che, in strada, rischiava di diventare esplosiva, al quarto piano del palazzo di giustizia, in un’aula che dava sul retro di un sonnolento e tranquillo cortile, all’ombra di veneziane tirate sino alla semioscurità, il giudice Reichman riprendeva la sua udienza. Era, il gudice, un uomo vecchio, vecchissimo, annegato in una toga troppo grande che gli si era sciolta addosso. Aveva la pelle trasparente, leggera come la carta delle case giapponesi. Il naso affilato, un sottile e costante raffreddore, e un piccolo accumulo di saliva al bordo della bocca che nettava- e l’uno, e l’altro- costantemente con un fazzoletto che teneva nella manica.
In più il giudice Reichman, però questo pochi lo sapevano, era ormai anche sordo come una cernia, ma per una forma di ritegno si rifiutava di indossare l’apparecchio acustico. E in fondo, tutto sommato, di quel che dicevano gli avvocati e gli accusati, non gliene fregava poi un granché.
Infatti non erano stati gli insulti a far sgomberare l’aula.
È che a vedere quei tipi, quella gente non abituata a frequentare i tribunali se non in qualità di accusati, a vedere come si agitavano, si atteggiavano, a vedere anche solo come si vestivano, il giudice aveva deciso che era troppo. Aveva afferrato il martello e, sollevatolo di quei pochi centimetri che il suo vigore ancora gli permetteva, l’aveva lasciato cadere sfinito sul tavolo accompagnandolo con parole di una stanchezza incommensurabile. Anzi, a dire il vero, la parola era stata una. Una soltanto, perché aveva detto in tono solenne: “SGOMBERATE–” e poi si era bloccato.
L’aula s’era zittita di colpo presagendo l’imminente morte del giudice Reichman in diretta. Lui se ne stava immobile, la bocca un po’ aperta. Un colpo apoplettico. Un ictus. Morte cerebrale. Esequie di Stato. Poi una piccola vena azzurrina aveva pulsato nella tempia e lui era ripartito: “L’aula. Sgomberate l’aula, Wilson.”
E Wilson aveva sgomberato.
Quindi, quel giorno, nell’aula del quarto piano del palazzo di giustizia, nella penombra e nel silenzio, Stan McPunklet stava in piedi davanti al giudice federale Reichman. Il giudice che analizzava un documento, o pensava, o dormiva, o era morto.
Poi la vena azzurrina fece il suo duro lavoro e il giudice disse:
“Signor McPunklet lei è accusato di insulti a pubblico ufficiale,” e poi aveva tirato fuori il fazzoletto e, continuando a leggere- “Secondo l’articolo tale e talaltro,”- si era soffiato il naso, asciugato l’angolo della bocca “… come si evince dal comma successivo e quello precedente”, e aveva ritirato il fazzoletto nella manica e non aveva più detto niente per un lungo momento durante il quale gli era tornata alla mente una bambina di nome Emma che conosceva tanti anni fa. Era la figlia dei vicini di casa, una famiglia di immigrati ungheresi. Emma andava sull’altalena agganciata al ramo di un melo. Aveva le calzette bianche e una gonna colorata e due trecce lunghe. Emma. Chissà che fine ha fatto. Sarà vecchia. Se ancora viva.
McPunklet nel frattempo si era alzato e aveva detto: “Io non ho insultato nessuno.”
Ma Emma salutò il giudice Reichman con la manina, come tanti anni fa, e andò a casa per la cena e allora anche il giudice rientrò nella sua aula di giustizia: “E non è neppure la prima volta che lei compare davanti a un tribunale, signor McPunklet!”
“Sì, ma questa volta è diverso!” aveva protestato il giocatore.
“Tredici volte! Tredici volte lei è già comparso davanti a una Corte di Giustizia! Tredici volte di cui otto per rissa aggravata, due per guida in stato d’ebbrezza…”
“Vabbé, ma se non si può neppure bere un bicchiere con gli amici…” mentì McPunklet sapendo che il bicchiere con gli amici erano state dodici pinte di Guinness.
“Altre due per minacce a un giornalista. E una per furto.”
“Quel reggiseno non l’avevo rubato io!”
Ma intanto il giudice non sentiva e continuava la sua tirata: “Insomma, signor McPunklet, lei è una persona indubbiamente pericolosa. Socialmente instabile e moralmente detestabile.”
“Mi sembra un po’ esagerato definirmi perico–”
“Mi rendo conto che in questi tempi di decadenza, tempi in cui le regole non vengono più rispettate, in cui ci si fa beffe della legge, in cui l’ordine, la disciplina, sono calpestate, mi rendo conto che i suoi atteggiamenti possano non apparire poi così fuorvianti e anticonvenzionali.” Tirò fuori il fazzoletto e si asciugò di nuovo l’angolo della bocca, facendo una piccola pausa. “Eppure. Eppure io la penso diversamente. Io sono convinto che questo mondo si possa ancora salvare. Con le regole. Regole ferree applicate in maniera ancor più ferrea. Lei è un delinquente. Non ho pudore a utilizzare questo termine in circostanze legate alla sua persona. E dirò di più. Temo che la sua tendenza a delinquere sia genetica.”
“Genetica?!”
“Non mi stupirebbe se si scoprisse che anche altri membri della sua famiglia abbiano il medesimo profilo criminale.”
“Profilo criminale? Membri della mia famiglia? Ma che diavolo dice?” chiese preoccupato McPunklet al suo avvocato.
“Se fosse per me la condannerei alla castrazione chimica perché individui della sua schiatta sarebbe bene che non si riproducessero.”
A questo punto fu l’avvocato a saltare in piedi gridando: “Obiezione vostro onore, questa è una corte federale, non un tribunale nazista!”
Ma il giudice Reichman continuò imperturbabile la sua disquisizione.
“Per quel che mi riguarda si tratta di un crimine gravissimo. La mancanza di rispetto per le forze dell’ordine è inaccettabile.”
“Ma io non ho mancato di rispetto a nessuno!”
“Ringraziate che il legislatore, in un impeto di incomprensibile lassismo, abbia eliminato la pena di morte, pena che questa Corte non avrebbe lesinato ad applicare a casi di questo genere…”
“Pena di morte?! Ma sta scherzando?!?!?!”
“… che denotano una completa mancanza di rispetto per lo Stato! E per quel che mi concerne questo è il crimine più odioso che si possa immaginare”.
“No, ma aspetti un attimo! A parte che quello non era in divisa… mica potevo sapere che era un poliziotto! Ma poi, che diamine! Cristo! E’ lui che mi è saltato sul cofano e mi ha pisciato sulla macchina!”
“In forza di questi presupposti la Corte da me presieduta non esiterà a condannarla al massimo della pena consentita. Ha qualcosa da dire a sua discolpa signor…” e controllò il nome sul foglio.
“Ma come il massimo della pena?! Ma ha sentito cosa le ho detto? È lui che mi ha pisciato sulla macchina chiamandomi figlio di puttana. Il minimo che potessi fare era scendere e dirgli di levarsi dal cazzo!”
“… signor McPunklet. Ha qualcosa da dichiarare?” e per la prima volta guardò il calciatore. “Quindi? Non ha niente da dire?”
Fu l’avvocato a prendere la parola: “Signor giudice,” esordì. “Signor giudice, uomini e donne della giuria! Questo è un grande Paese!”
E l’avvocato parlò per 40 minuti. Un discorso così toccante che anche i secondini piangevano come fontane. Aveva usato la stessa arringa di quando aveva fatto assolvere un pluriomicida raccontando una lacrimosa storia di un cane salvato. Era il suo cavallo di battaglia. Quando arrivava al punto in cui il discorso si addolciva e faceva “Quel cucciolo dal pelo ispido e gli occhioni malinconici…” l’effetto drammatico era assicurato e l’assoluzione certa.
Quando finì, 40 minuti dopo, la venuzza del giudice federale Reichman ebbe uno scatto che gli fece dire: “Questa Corte vi condanna a tre anni di prigione. L’udienza è tolta.”
Si alzò e se ne andò con una rapidità che il suo corpo non lasciava presagire. Scivolando, sotto la lunga toga, come se i piedi non toccassero terra. E lasciò McPunklet e il suo avvocato sconcertati.
Poi l’avvocato guardò McPunklet: “Mi dispiace. Francamente non pensavo che finisse così…”
McPunklet ricambiò lo sguardo: “Quel cucciolo dal pelo ispido, eh?”
“Ha sempre funzionato.”
“Be’, ti toccherà riaggiornare le statistiche.”
Stettero in silenzio per un po’, poi Wilson si avvicinò, mise le manette ai polsi di McPunklet e disse: “Andiamo.”
Mentre si allontanava l’avvocato Manson gli gridò dietro: “Abbiamo ancora il tribunale di sorveglianza! Tieni duro Stan!”
“Tieni duro un paio di palle,” mormorò Stan uscendo dall’aula.
Ma questo, Manson, non lo sentì. Quello che sentì fu Wilson che diceva: “E cammina!”
Allora Manson si diede da fare. Mosse tutte le pedine in suo possesso per cercare di far liberare McPunklet almeno prima della finale, ma niente. Il tribunale di sorveglianza era in sotto-effettivo, le pratiche galleggiavano nei faldoni che intasavano i corridoi e il caso McPunklet fu rinviato, così recitava la lettera del tribunale, al marzo successivo.
Marzo.
Successivo.
Cioè sei mesi di attesa.
Fine prima parte