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Sospiri finiti

07th Nov 2016
Vedere Sandro Mazzola giocare fa mancare il fiato. Vederlo segnare il gol più bello di tutti i tempi contro il Vasas è da ultimo respiro, sicuro.
Sospiri finiti
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Ho un numero limitato di respiri. Di sospiri poi, ancor meno. Li faccio tutti lentamente, con cadenza regolare. Dispiaceri o piaceri per me sono proibiti. Se la mia vita fosse tracciata come quando si fa un elettrocardiogramma, sarebbe piatta. Nessun picco, né in alto né in basso. La chiamano tranquillità. Quando gioco con i miei cugini, gli unici ammessi a casa mia, e solo per poche ore, mia mamma mi ripete all’infinito di stare calmo, di non eccitarmi troppo, di non lasciarmi trasportare dalle emozioni. E loro, poveri, sono istruiti allo stesso modo. Si annoiano, lo vedo, lo percepisco.

Una volta mi hanno proposto di giocare ai pirati, di nascosto. Mi hanno messo un’armatura di cuscini: sopra, sotto, di lato, in testa e perfino sui piedi. Tutto il corpo era protetto da uno strato morbido. Pensavano che così sarei stato protetto. E invece al terzo colpo di baionetta, ho fatto tre lunghi respiri ravvicinati e son caduto a terra. Mi sono risvegliato la mattina dopo. La faccia di mia mamma tra il preoccupato e l’arrabbiato (più la seconda, a dire il vero). I miei cugini banditi da casa per tre mesi. Quella volta ho perso quattro giorni di vita. Ma che divertimento. I miei cugini tifano Inter. A loro è concesso tifare, guardare le partite la domenica, arrabbiarsi e gioire. Io conosco il calcio solo attraverso i libri, i vecchi ritagli di giornale di mio papà. Ma non ho mai visto una partita. Li sento parlare. E sento un nome: «Mazzola».

mazzolaIl mio respiro si fa più serrato ma resisto: «Mazzola? Ma chi? Come? Non era morto? E Superga?». Per un istante ho pensato che mi avessero preso tutti in giro, che il Grande Toro fosse solo un’invenzione di mio padre, per raccontarmi qualcosa di più eccitante la sera, di nascosto da mamma. «Ma questo è il figlio», esclamano in senso di sberleffo i miei cugini. Ci siamo messi d’accordo io e loro. Devo vedere una partita di Mazzola. Devo riuscire a piazzarmi davanti un televisore a fare il tifo. Tutto è programmato. È un pomeriggio d’inverno, è festa, i parenti sono in cucina a discutere davanti a una tazza di caffè. Noi accendiamo di nascosto la televisione, il volume impercettibile (e poi anche al massimo non sarebbe in grado di sovrastare le urla stridule di mia zia).

L’Inter è a Budapest, gioca la partita di Coppa dei Campioni contro il Vasas. Siamo in ritardo e i nero azzurri hanno già segnato il primo gol. Ma a me poco interessa. Io voglio solo vedere Mazzola, il figlio. Lo cerco disperatamente con gli occhi. Lo vedo. Elegante, longilineo, raffinato. Lo immaginavo proprio così. Ma vederlo è tutt’altro. «Mi bastano dieci minuti e poi spengiamo», avevo detto ai miei cugini. Invece i minuti passano e la voglia di continuare a vederlo danzare non si assopisce. Inizia la sua rincorsa da metà campo e con agilità si avvicina alla porta avversaria. I miei cugini cominciano a staccare il sedere dal divano, un pezzetto per volta, le braccia rivolte sempre più verso il televisore. Il mio cuore batte all’impazzata, lo sento in gola. E il fiato è ogni istante più corto. Mazzola supera i difensori, uno dopo l’altro. E lì arriva il primo «Tira» sussurrato dai miei cugini, paonazzi per lo sforzo di non urlare. Supera anche il portiere e il secondo «Tira» sale di tono, accompagnato da movimenti felini verso il televisore. Ma Mazzola è un signore, aspetta che il portiere rientri e solo in quell’istante, nell’attimo esatto in cui il mio fiato si sta per spezzare, finito, esaurito, all’ultima goccia… tira. E segna. È un istante, anche se sembra un’eternità. Urlo «Gol», non so come, non so perché. Ho terminato il fiato a mia disposizione. Ma che divertimento.

Ho raccontato di Alessandro Mazzola, detto Sandro. È considerato uno dei calciatori italiani più forti di sempre, campione europeo nel 1968 e vicecampione del mondo nel 1970. Figlio di Valentino Mazzola, vittima della tragedia di Superga con il Grande Torino. Sandro ha legato la sua storia calcistica all’Inter, prima come giocatore e poi come dirigente. Il suo gol più bello, e forse uno tra i più belli in assoluto, l’ha segnato al Vasas durante una partita di Coppa dei Campioni nel 1966. Parte da centrocampo, supera tutta la difesa ungherese, supera anche il portiere, si accentra ma non tira. Tutti quelli che assistono alla partita non fanno che gridare all’unisono: «Tira, tira!!». Ma lui ancora non lo fa. Aspetta addirittura il rientro del portiere, fino a quando non infila un pallone nell’angolo alla sinistra del difensore estremo del Vasas. È gol, uno dei più entusiasmanti di sempre.

Claudia Moretta



Moretta di nome e di fatto è la frase che la perseguita da quando è  bambina. Nomen omen. Si è  sempre immaginata con un cesto di more in testa, come una moderna e più gustosa Medusa. La sua fantasia un po’ onìrica, oggi, si è riversata nello sport. I campioni diventano eroi, le loro vittorie o sconfitte gesti epici. Perché lo sport è una favola a occhi aperti.

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