“Pensavo a quel gelo, a quel vuoto che avevo traversato e che lei si portava nelle ossa, nel midollo, nel sangue. Valeva la pena di rivivere ancora? Ci pensai, e intravvidi il barlume del giorno. Allora dissi “sia finita” e mi voltai“.
[Cesare Pavese – Dialoghi con Leucò]
«Orfeo commise l’errore di girare la testa in cerca degli occhi della sua amata Euridice. Così la condannò agli inferi ma si inflisse anche e soprattutto l’eterno castigo di non poter più amare nessuno. Quando fummo costretti a lasciare Smirne, diretti verso la Grecia, non facemmo lo stesso errore, mai ci voltammo verso la Ionia. Guardammo avanti e decidemmo che là, ad Atene, sarebbe sorta la nostra nuova casa. E lì avremmo ricominciato ad amare.
Eravamo gli esuli della Catastrofe dell’Asia Minore. Un milione e mezzo di greci costretti a lasciare i territori turchi, dove eravamo nati e cresciuti. E dove qualcuno ci aveva raccontato, per pochi anni a dire il vero, che saremmo stati cittadini di una nuova Grande Grecia. Avevamo ancora negli occhi i massacri dell’una e dell’altra parte. Non è facile lasciare la propria città, ma la paura e l’orrore nei quali eravamo stati immersi fino alla gola furono più forti di qualsiasi desiderio di rimanere.
Arrivammo ad Atene che non avevamo niente. Ricominciammo da zero, ma ci portammo dietro i nostri simboli: fondammo Nea Smirne, Nea Ionia, Nea Philadelfia, e così molti altri quartieri. Furono anni durissimi, la città non era pronta ad accoglierci. Tutta la nazione era appena uscita da una guerra, senza neanche capire se da vincitrice o da vinta. E i suoi politici già si avventavano in un’altra nuova folle campagna.
Quando riuscimmo a mettere insieme un po’ di pane, ad avere qualcosa in tavola ogni giorno, quando ci sentimmo un po’ più tranquilli, ci ritrovammo tutti insieme e tirammo fuori le nostre maglie rosso chiaro. Ricominciammo a giocare a calcio. Il nostro “Orpheus Musica e Sports Club” doveva ritornare grande: eravamo la più antica squadra greca di calcio e le nostre bandiere dovevano sventolare su tutta l’Ellade.
Già da qualche anno avevamo cambiato nome in Panionios Gymnastikos Syllogos Smyrnis, eravamo diventati la squadra di tutta la Ionia, Pana-Ionios. Quel giorno, riuniti, con un pallone in mano, dopo tante sofferenze, decidemmo, ancora una volta, che non ci saremmo mai girati più indietro e cambiammo i colori della nostra maglia, che divenne blu, con una banda diagonale rosso acceso. Decidemmo anche che prima o poi avremmo avuto uno stadio proprio qui a Nea Smirne. Ce l’abbiamo fatta, anche se adesso, come potete vedere, la nostra casa cade letteralmente a pezzi».
L’anziano ha parlato per mezz’ora filata. Indossa un basco marrone, ha lo sguardo accigliato. E’ proprio uguale a qualsiasi nostro vecchietto. Una faccia, una razza. Noi siamo in tre e siamo a bocca aperta. Massimo ci ha convinti a venire fino a Nea Smirne per vedere lo stadio del Panionios. Domani vedremo uno dei tanti derby di Atene, quello fra AEK e Panathinaikos, rispettivamente seconda e terza in campionato. L’Olympiacos da anni ormai fa una corsa a sé.
Il bar del club affaccia, tramite una grande vetrata, direttamente sul terreno di gioco. Ci sono due partite in tv, il derby di Madrid e un’altra gara della Superlega ellenica. Dire che il locale ha un aspetto un po’ retrò è usare un eufemismo. Davanti a noi, appoggiati sul tavolo rotondo, ci sono tre bicchieri dove l’ouzo sta lentamente sciogliendo il ghiaccio, assumendo il classico colore bianco opaco. Tutto il bar è intorno a noi che ascolta questa storia che ormai conosce a memoria. Ma siamo un’autentica attrazione, non capita molto spesso di avere tre ospiti da queste parti. Io non mi trattengo e glielo chiedo:
«Ti ricordi di Recoba?»
«Certo. Un grandissimo giocatore, ma qua non fu molto apprezzato. Il pubblico era esigente, pensava che con lui ed Estoyanoff avremmo potuto competere con le Tre Grandi e invece fu tutta un’illusione».
«Che cosa ci rimane oggi? Poco, pochissimo. Giochiamo un buon calcio. Siamo come una famiglia, ma i soldi sono finiti. Come in tutta la Grecia. Lo stadio è di proprietà del municipio e là non hanno nessuna intenzione di investire nella ristrutturazione di questo ammasso di cemento. Un tempo faceva quasi ventimila posti. Prima degli ultimi problemi era omologato per undicimila. Oggi non arriviamo neanche a quattromila e cinque. Ma non è quello il problema, perché tanto a vedere la squadra non ci viene nessuno. Abbiamo una delle medie presenze più basse di tutto il campionato: 2740 persone. Vaglielo a spiegare ai ragazzini che devono tifare il Panionios e non l’Olympiacos. Un tram, una metro e sei al Karaiskákis. Vedi un bel calcio, vinci i campionati e fai anche la Coppa dei Campioni. Qua non c’è rimasto più nessuno».
Non sappiamo cosa dire. Facciamo girare il ghiaccio nei bicchieri. Insieme a Massimo ci dividiamo il contenuto di quello di Stefano, che non ama l’ouzo. Anzi lo odia proprio. Ma sembrava brutto dire di no. L’anziano con il basco si accorge del silenzio troppo prolungato. Ci batte su una spalla, come per rincuorarci.
«Ehi, domani giochiamo con Levadiakos, se vinciamo andiamo a meno uno dal Panathinakos che tanto perde il derby con la AEK. Venite a vederci. A fine campionato arriviamo noi terzi. Vedrete. Sempre avanti, senza mai voltarsi indietro».
A Scanna, a Mex,
naturalmente.
Nasce in Toscana, ma si trasferisce presto altrove. Sostiene di amare l’Inghilterra, in cui per pigrizia comprende anche la Scozia, ma non l’Irlanda. E anche i Balcani, quelli li ama molto. Dice di fare lo stesso lavoro di Bukowski. Ma come gli ricorda spesso un suo caro amico, dovrebbe smetterla di atteggiarsi, visto che è solo un postino. Odia chi imita l’accento toscano e chi mette in discussione José Mourinho. Vi annoierà principalmente con racconti ambientati nella Perfida Albione e sotto slavi cieli del Sud, non senza grazia.