Nick Hornby, in quello che a nostro avviso è il suo miglior libro, Fever Pitch, o Febbre a 90°, nel capitolo conclusivo svela una grande verità sul perché il calcio riesca a piacere così tanto, a prescindere dalla categoria. E si riferisce non solo al guardarlo, ma anche al giocarlo, il martedì con gli amici, in un campetto di periferia. Il segreto, secondo lui, è che chiunque con un po’ di destrezza e un po’ di fortuna, può riuscire a fare una cosa incredibilmente bella o importante, a prescindere dalla sua bravura. Questa è la storia di un uomo che un giorno, un po’ per caso, un po’ per fortuna, un po’ perché fu anche bravo, entrò nella leggenda della FA Cup.
High Wycombe è la tipica provincia inglese. Neanche centomila persone a poco meno di cinquanta chilometri da Londra. Con la capitale così vicino, non è facile sviluppare una propria identità e una propria storia. La metropoli succhia la linfa culturale, si prende i migliori giovani e ti lascia a malapena le briciole: qualche bravo artigiano che ha provato ad ingrandirsi e ha messo su qualche piccola azienda manifatturiera. Da queste parti si producono mobili e in particolare sedie. Sì, avete capito bene: sedie, tanto che i giocatori della squadra di calcio, il Wycombe Wanderers Fc, vengono chiamati chairboys.
I calci al pallone da queste parti si tirano dal 1887, eppure in questi 120 anni di storia, non c’è stato praticamente niente da festeggiare. Qualche piccolo trofeo nei dilettanti, qualche promozione nei professionisti, per arrivare al massimo in terza divisione. Eppure, a sfogliare gli annali del calcio, c’è stata una stagione più luminosa delle altre, la stagione che sarebbe stata per sempre ricordata dalla squadra con la maglia a quarti blu chiaro e blu scuro e il cigno sul petto: era il 2000-01, l’anno della semifinale di FA Cup.
Il Wycombe aveva cominciato la competizione affrontando i dilettanti londinesi dell’Harrow Borough, poi sempre nella capitale per sconfiggere in un doppio confronto il Millwall. E un altro replay per avere la meglio del Grimsby Town. La piccola squadra di quarta divisione era già al settimo cielo quando l’urna disse Wolverhampton in casa. Due a uno, e via verso quelli che dalle parti della Regina dovrebbero chiamarsi ottavi di finale ma si chiamano “Quinto turno”. Di fronte il Wimbledon. La Crazy Gang ormai era morta e sepolta. Questi non erano che i cugini tremendamente sbiaditi, già sulla rotta di Milton Keynes. Eppure rimanevano favoriti. Anche qui ci volle il replay e anche i calci di rigore, ma alla fine i Chairboys ce la fecero ed ebbero accesso per la prima volta ai quarti di finale della Football Association Cup.
Ma tutte queste partite avevano fiaccato la rosa non lunghissima a disposizione del Manager, Laurie Sanchez. Un predestinato. Quello che con una zuccata, entrata nella storia, aveva portato proprio il Wimbledon alla vittoria del trofeo nel 1988. L’urna questa volta aveva scelto il Leicester. Dimenticatevi della favola guidata da Ranieri, ma la squadra delle East Midlands era una compagine che navigava stabilmente in Premier, e contava, soprattutto in casa, di fare a pezzi il certo non imbattibile Wycombe.
Saranno state notti difficili quelle del Mister. Arrivare a un metro dall’impresa e non poterci neanche provare perché non hai più giocatori a tua disposizione, e quelli che hai sono a pezzi. L’idea che venne alla dirigenza sembra, a guardarla oggi, uscita da un film di serie B: un annuncio sui giornali, o meglio ancora, sul televideo, il Ceefax della Bbc: Wycombe wants you!
A rispondere all’annuncio fu l’agente di un nord-irlandese che a sette mesi era andato a vivere in Ghana, paese del papà, e che era poi tornato in Europa ai tempi della scuola. Si chiamava, e si chiama tuttora, Roy Essandoh, una punta di 1 metro e 83 che giocava in Finlandia, dove però da qualche mese non prendeva lo stipendio. Non era certo Michael Owen, ma in panchina avrebbe potuto far comodo.
E così si andò a Filbert Street, vecchia casa del Leicester City. Nonostante le tre categorie di differenza, la partita si stava protraendo in un sostanziale equilibrio. Laurie Sanchez aveva schierato una squadra molto coperta, con il solo George Clegg davanti a fare a sportellate con la difesa delle Foxes. Gli ospiti passarono in vantaggio con un gol di McCarthy, ma il pareggio di Izzet arrivò quasi subito. E con una facilità disarmante. La volpe stava facendo divertire il cigno, ma si capiva benissimo, che aveva la situazione in mano. Al 78° minuto Clegg fu costretto ad uscire: Sanchez si girò verso la panchina. C’era il deserto. L’unico attaccante era Roy Essandoh. Toccava a lui.
Il novantesimo. Un traversone dal centrodestra del Wycombe. Una palla quasi innocua attraversò tutta l’area di rigore, una sponda dalla sinistra e al centro si ritrovò solo l’uomo della provvidenza. Colpo di testa e palla in rete. Wycombe Wenderers in semifinale a Birmingham contro il Liverpool. Sul tabellino dei marcatori: Roy Essandoh.
Allo stesso modo in cui nascono, queste leggende sanno anche tramontare con estrema velocità. La semifinale andò come da pronostico e il Liverpool si impose per 2-1, andando poi a vincere la finale contro l’Arsenal grazie ad una doppietta di Owen. Roy Essandoh giocò 12 partite per il Wycombe, segnando quell’unico gol, e tornò a girovagare per i campi di mezza Inghilterra. Ma ormai la leggenda dei Chairboys era stata scritta.
Nasce in Toscana, ma si trasferisce presto altrove. Sostiene di amare l’Inghilterra, in cui per pigrizia comprende anche la Scozia, ma non l’Irlanda. E anche i Balcani, quelli li ama molto. Dice di fare lo stesso lavoro di Bukowski. Ma come gli ricorda spesso un suo caro amico, dovrebbe smetterla di atteggiarsi, visto che è solo un postino. Odia chi imita l’accento toscano e chi mette in discussione José Mourinho. Vi annoierà principalmente con racconti ambientati nella Perfida Albione e sotto slavi cieli del Sud, non senza grazia.