Atto I, Lui è Romario
L’atmosfera è tesa. Bobby Robson utilizza il tono solenne delle grandi occasioni, mentre Frank Arnesen, il suo vice, traduce dall’inglese allo spagnolo. In quella stanza, a ridosso del campo di allenamento del Psv Eindhoven, nessuno parla portoghese. Tranne Romario, che però con le lingue straniere non ha mai avuto un grande feeling. Un po’ come con tutte le cose che richiedessero un minimo di impegno. «Romario – esordisce Robson – la devi smettere di andartene dal campo di allenamento, e sopratutto devi metterti in testa che il venerdì sera non puoi uscire». È l’ennesimo incontro tra i due, conviventi sotto lo stesso tetto ma abitanti di due mondi completamente agli antipodi.
Stavolta però devono capirsi, perchè nello spogliatoio dei Boeren tira una brutta aria. Bobby Robson l’ha capito, riportare il malandro all’ordine è tempo perso. Romario crea tanti problemi in allenamento quanti ne risolve in campo. L’allenamento, certo, quando decide di partecipare e finchè non si stanca. Cinque chilometri di corsa veloce? Puoi baciare per terra se ne fa uno, poi stai sicuro che se ne va. Sessioni cardio e lavoro sulle gambe? Non ti conviene neanche aspettarlo, lo vedi arrivare dal nulla appena spunta fuori un pallone. Che poi, di fronte alle lamentele degli altri, come puoi stare lì a spiegare che lui è Romario? Perchè così stanno le cose, e lo sanno anche loro.Robson parla, cerca di essere rigido e comprensivo allo stesso tempo. Arnesen traduce, mentre Romario non smette di fissarlo. È dall’inizio della riunione che lo guarda, senza mai togliergli gli occhi di dosso. Lo fissa come un cobra fa con la sua preda, senza dire una parola. Romario è così, e i compagni in fondo hanno imparato a volergli bene. Anche Gerets, che è capitano del Belgio, sa bene che il brasiliano guadagna di più perchè, mentre loro sono in grado di giocare una partita, lui è capace di vincerla. Anche se la sera prima è stato in un club fino all’alba e ha dormito fino a mezz’ora prima della partita. In cinque stagioni a Eindhoven sono arrivati tre scudetti, due coppe nazionali e una supercoppa, mentre Romario si è laureato per tre volte capocannoniere dell’Eredivisie.
Bobby Robson parla, cerca di spiegargli che per calmare le acque basterebbe un minimo di impegno, gli dice esplicitamente che dal suo atteggiamento dipende la stabilità dell’intero spogliatoio. Arnesen continua a tradurre, mentre Romario non smette di fissarlo. Continua a non proferire parola, neanche quando Robson gli chiede esplicitamente il suo punto di vista sulla questione. Arnesen non ne può più, si sente umiliato e sbotta. Urla, sbatte i pugni sul tavolo, pone il suo viso a pochi centimetri da quello di Romario e lo insulta. Poi esce dalla stanza sbattendo la porta. Romario resta lì, impassibile, accompagnato dalla costernazione di Robson, che però, in fondo, ha capito. Romario è così. È lì ma non è lì. È in campo a segnare, ma non in quella stanza ad ascoltare le tue prediche. Se ti piace è così, altrimenti amici come prima.
Atto II, Cola de Vaca
La palla arriva, comoda, rasoterra, spinta dai giovani ma già sapienti piedi di Josep Guardiola. Romario è all’altezza della lunetta, leggermente spostato sulla sinistra, con Alkorta che, alle sue spalle, aspetta e prega di non doversi ritrovare a vivere l’emozione di un uno contro uno con il brasiliano. Romario ottiene il pallone, tra lui e il difensore madridista ci sarà forse un metro. Lo stoppa e si gira, con l’interno del piede che accompagna e protegge dolcemente la sfera, dandogli la velocità necessaria per lasciare il difensore di sasso. Nasce così la cola de vaca, in analogia al movimento di 180° che le mucche operano con la coda per scacciare le mosche. Dura una frazione di secondo, ma il brasiliano già non c’è più. Alkorta accenna l’inseguimento, ma di Romario ormai è rimasto solo quel dez che splende sulla camiseta blaugrana. Un altro lampo, e Romario conclude l’opera anticipando l’uscita di Buyo con un perfetto colpo da biliardo.
Altro che mucca, il brasiliano è la tigre di Jacarezinho descritta da Eduardo Galeano, quella venuta da chissà dove, quella che «appare, piazza la zampata e svanisce». È sempre così, gli basta ricevere un pallone nei sedici metri, non farà altro che buttarlo dentro. Certo, anche in Catalogna non perde i vizi di una vita. È indisponente, a volte lo vedi passeggiare in campo, come se non capisse l’importanza della maglia che sta indossando. Poi però, quando decide di accendersi, sono dolori. Quando scatta palla al piede, quanto punta la porta o taglia l’area in diagonale, prima o poi ti ritrovi costretto a fermarlo con le cattive. Certo, sempre se riesci a prenderlo. Ci hanno provato in tanti quell’anno, ma alla fine Romario è riuscito a buttarla dentro trenta volte, vincendo Premio Pichichi e scudetto.
L’unico rimpianto è quell’umiliante finale di Coppa Campioni contro il Milan, in quella partita che da passeggiata si era brevemente trasformata in una scalata impossibile. Si rifarà l’anno prossimo? Chi può dirlo, e chiederglielo è decisamente inutile. Quando l’arbitro fischia tre volte, la testa di Romario già non è più ad Atene. Ormai ha timbrato il cartellino, il lavoro è terminato. Ora lo attende la sfida di una vita, quella che lo consacrerà per sempre nell’olimpo brasiliano del calcio.
Atto III, Ultima samba a Pasadena
La fissa, la tiene stretta tra le mani. La sente, finalmente sente quella sensazione che aspettava da una vita. Si commuove, perchè alla fine ce l’ha fatta. Quasi non ci crede, e forse per questo non riesce a staccarle gli occhi di dosso, mentre intorno a sé si scatenano i festeggiamenti. Dunga lo abbraccia e lo guarda sorridente e commosso. Per il capitano la festa è tutta negli occhi di Romario. Anche se a 31 anni sa che per lui non ci saranno altre occasioni per bissare questo momento, la sua attenzione ora è tutta per il suo numero undici. Lo guarda contemplare la coppa, sa quanto quel trofeo valga per lui, conosce tutto quello che Romario ha dato per conquistarlo. Tutto, ogni minima parte della sua passione e del suo repertorio. Perchè Romario quella coppa non voleva solo vincerla, lui voleva conquistarla per regalarla al popolo brasiliano. Cinque gol, ha segnato in tutti i modi. Da rapace d’area, dalla distanza, dopo un accelerazione mozzafiato. Alla fine anche di testa, in semifinale contro la Svezia. Il Baixinho, il nanerottolo, che svetta tra i giganti scandinavi, è la poesia che spiega quel percorso iniziato dopo Italia ’90, dopo quella triste manciata di minuti collezionati in tutto il torneo. Dopo l’esilio voluto da Carlos Alberto Parreira, che alla fine però si era convinto a tornare sui suoi passi.
L’aveva capito anche lui, Romario stava vivendo solo ed esclusivamente per alzare quel trofeo da protagonista. Come Pelè, l’odiato Pelè. Così elegante, diplomatico, con quel sorriso a trentadue denti sempre pronto per ogni occasione. Pelè piace a tutti, Romario no. Romario è diverso, e l’ha sempre rivendicato con orgoglio. Non è semplicemente brasiliano, Romario è carioca, è il tipico abitante di Rio de Janeiro. È un personaggio che, già se ti sposti dalle parti di San Paolo, ispira molta meno simpatia. «Come un argentino», ti rispondono, e ci siamo capiti. Ma Romario è così, ha scelto di viaggiare in prima classe senza perdere la sua genuinità, senza cedere in cambio il lusso di dire quello che pensa, senza lasciare per strada gli amici con cui da ragazzino esercitava la nobile arte dell’arrangiarsi. Genuino, sincero, sfrontato, Romario è così. E da Pasadena non è più tornato.
Perchè di quel 17 luglio 1994 c’è un prima e un dopo, e dopo c’è il malandro che decide di smettere. Non di giocare, ma di lavorare in Europa. Da quel giorno il calcio torna ad essere passione, perchè, dopo un Mondiale conquistato, l’ambizione non ha più senso di esistere. I titoli di coda a Barcellona e una fugace esperienza a Valencia anticiperanno il suo ritorno in Brasile, dove lavoro e vita torneranno a camminare insieme. Ci sarà spazio ancora per una delusione, per quella convocazione in terra francese svanita all’ultimo, e per un nuovo obiettivo, che lo porterà a viaggiare tra Qatar, Stati Uniti e Australia. I mille gol di Pelè, un’ossessione che lo porterà a giocare quasi contemporaneamente agli estremi opposti del globo terrestre. C’è chi dice ci sia riuscito e chi, al contrario e tabelle alla mano, ferma il suo bottino a 757. Ma questi sono soltanto numeri, inutili per raccontare la storia e la poesia di Romario. Un nanerottolo linguacciuto e strafottente, un attaccante inarrestabile, il malandro che ha preso il Brasile per mano e l’ha accompagnato al quarto titolo mondiale. Tutti in piedi, cala il sipario.
Ideatore di progetti a tempo perso e appassionato di film in serbo-croato con sottotitoli improponibili, parlerebbe per ore di calcio, di politica e di Jugoslavia. Se poi riesce a far entrare tutto nello stesso discorso, preparatevi al peggio. Forse ha aperto Storie del Boskov perché nessuno è più disposto ad ascoltarlo.