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Roberto

18th Feb 2017
Affinità e divergenze fra il Divin Codino e noi al conseguimento del mezzo secolo di età
Roberto
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Gianni Galleri

Roberto Baggio è una fenice. Brucia, muore e da quelle ceneri risorge. Quello più famoso l’ha fatto una volta, Roberto Baggio ben quattro. Prima volta: ha deluso tutti, è andato a Torino, lasciando la Fiorentina. E’ vero c’erano tanti soldi di mezzo e la possibilità di vincere, ma ha comunque tradito i suoi tifosi. E’ il 6 aprile 1991, la Fiorentina vince 1-0 gol di Fuser. Rigore per la Juventus. Baggio non lo vuole tirare, viene sostituito. Calcia De Agostini: sbaglia. Mentre esce Roberto raccoglie una sciarpa viola. La pace è fatta. Seconda volta: l’Italia, che fino ad allora ha fatto poco meno che ridere, è sotto di un gol con la Nigeria. E’ vero che gli africani sono la sorpresa del Mondiale, ma gli azzurri si trovano sull’orlo di una crisi di nervi. Baggio è stato sostituito con la Norvegia. Ha detto di Sacchi: ma questo è matto. All’ultimo minuto Mussi scende sulla fascia. La mette dentro: Baggio fa un tiro sporco, passa fra una selva di gambe e come una sliding door si insacca nell’angolino e cambia l’inerzia della competizione. Terza volta: Baggio è finito. Il Milan se ne libera e Baggio va in provincia, a Bologna. E lì ancora una volta rinasce. E va ai mondiali. Passano solo due anni e sembra che sia ancora una volta finita. L’esperienza all’Inter ha avuto vette altissime, ma anche periodi davvero bui. E Baggio va a Brescia, dove c’è Mazzone. Il suo contratto dice: se Carletto viene esonerato, io sono svincolato. Non succederà mai. Saranno quattro anni meravigliosi, un autentico capolavoro. Come quei romanzi meravigliosi che alcuni scrittori riescono a creare solo nella calda luce della maturità. Il 16 maggio 2004 Roberto Baggio da Caldogno appende le scarpette al chiodo e immediatamente viene assunto in cielo, come Quello più famoso.

Carlo Perigli

Io non lo so. Non lo so come si fanno gli auguri a Roberto Baggio. Forse mi vergogno. Anzi, probabilmente è solo quello. Mi vergogno come quando avevo nove anni, e in quell’estate sognavo di incontrarlo per strada, mentre lui dall’altra parte del mondo portava sulle spalle le speranze e i sogni di un Paese intero. Figuriamoci poi, non giocava nemmeno nella mia città, nella sua carriera da girovago da queste parti non c’è mai passato. Eppure Roberto Baggio è anche mio. Roberto Baggio è di tutti, nessuno si senta escluso. Roberto Baggio è l’eleganza, l’estro, la classe. Roberto Baggio è il nome di quella magia che da più di trent’anni illumina anche le domeniche più nere. Roberto Baggio è la testardaggine di chi si è ribellato al bullismo della sfortuna e l’ha affrontato senza paura. Roberto Baggio è quel bisogno irrefrenabile di uscire per strada, gettare due felpe per terra e sentirsi campioni. Roberto Baggio è il Super Santos, il Super Tele, il Tango. Roberto Baggio è il Mikasa. Robero Baggio è il giardino sotto casa che diventa San Siro finchè non fa buio. Roberto Baggio è il vicino che ti ridà il pallone con un rimprovero bonario, mai quello che te lo buca. Roberto Baggio eravamo perfino noi, che pure non eravamo bravi per niente. Ma, alla fine, ci bastava poco.

C’è stato un tempo in cui il calcio era tutta una questione di fantasia.

baggio

Claudia Moretta

Possono dissolversi solo i grandi personaggi. Solo a loro è concesso di ritirarsi a vita privata, non essere più cercati ma solo ricordati, non essere più inseguiti ma solo osannati. Il loro oblio mediatico è direttamente proporzionale alle loro capacità. Roberto Baggio, da indiscusso e unico campione qual è, non sfugge a questo teorema: non si vede più ma tutti, se pensano al calcio, se pensano a chi li ha fatti innamorare da ragazzini, pensano a lui. Baggio è il ricordo. È il nostro ricordo, di tutti noi che attaccati alla televisione abbiamo gioito e pianto assieme a lui, abbiamo sofferto ai suoi troppi infortuni e abbiamo amato i suoi dribbling ispirati al suo mito Zico. È il campione del secondo, della frazione, dell’istante. Con lui tutto era possibile in un attimo. Nemmeno ti rendevi conto di quello che aveva fatto. Un secondo e tutto accadeva. Nel bene e nel male. Perché negli istanti maledetti Baggio era in grado di infortunarsi in modi assurdi; ma in quelli benedetti era in grado di realizzare gol da manuale, dribblare gli avversari partendo da metà campo e arrivando alla porta, tirare punizioni con la precisione chirurgica di chi già conosce dove andrà a finire il pallone. Ma quello che l’ha definitivamente consacrato a campione, è avvenuto senza scarpini ai piedi. Roberto Baggio è quello che alla notizia della morte di Vittorio Mero lascia il campo con gli occhi pieni di lacrime, è quello che scrive e dice parole cariche di emozioni per il suo amico Stefano Borgonovo. Da lui mai una parola fuori posto, mai una discussione, mai una polemica. Solo amore infinito per questo sport e rispetto per i suoi compagni e allenatori. E allora è legittimo così. A noi, quelli che ogni domenica si innamoravano di lui, manca. Ma è giusto che un campione che ha fatto del secondo il suo modo di giocare, che ha fatto dello zen il suo modo di intendere la vita fuori dal campo, ora abbia il diritto di sparire, dissolversi e lasciarsi alla leggenda. In noi il ricordo delle sue giocate e del suo modo d’essere, per contrappasso, resterà ben impresso nella mente. Senza bisogno di riguardalo alla televisione o di sentire qualche intervista. Lo abbiamo ben scolpito nella mente ma soprattutto nel cuore.

Lorenzo Latini

All’improvviso avevamo tutti il codino. Una masnada di bambini e ragazzini, in tutto lo Stivale, avevano costretto barbieri che per quarant’anni di onorata carriera avevano fatto sempre lo stesso taglio a reinventarsi, ad imparare una cosa nuova: il codino alla Roby Baggio. Ci aggiravamo nei parchi, nelle piazze e sotto casa, correndo e gridando dietro ad un pallone a qualsiasi ora del pomeriggio, con quei dieci peli che ricadevano lungo la nuca. Durante una delle nostre interminabili partite estive – sarà stato il ’94 o il ’95 – un signore, vedendoci, ci apostrofò: – Parete ‘n branco de sorci, co’ ‘sti cosi!-. E non aveva tutti i torti, effettivamente. Ma a noi non interessava. Innanzitutto perché a sette/otto anni tendi a fregartene di cosa sia “cool” o meno (e noi non lo eravamo affatto), ma anche perché per noi era “cool” solo lui: Baggio. Il Divin Codino, per l’appunto. Il primo a farselo crescere fra i miei amici fu Simone, e tutti gli andammo dietro.
Eravamo ridicoli e felicissimi. Neanche quella ciocca di capelli avesse il potere di renderci dei fenomeni, dei campioni come lui. “Ora che ho il codino, diventerò forte come Roberto! Deve essere questo il suo segreto”.
Poi, quando ci rendemmo conto che scarsi eravamo partiti e scarsi eravamo rimasti, ce lo tagliammo. Tanto valeva provarci con i capelli rasati a zero come Ronaldo. Poi, grazie a Dio, iniziò la pubertà e smettemmo di tagliarci i capelli come il nostro calciatore preferito. Fortuna che ho quasi trent’anni ora che gli idoli sono Pogba, Hamsik, Nainggolan e Vidal.
Nel frattempo, però, lui continuava ad essere l’idolo, al di là dell’avvento del Fenomeno. Con il quale si ritrovò a giocare all’Inter, anche se insieme scesero in campo davvero di rado. E quando, dopo aver giocato nelle tre squadre più forti d’Italia, decise di chiudere la carriera in provincia, lo amammo ancora di più. Perché vederlo con quelle casacche là, diciamocelo chiaro tondo – soprattutto una – non è che fosse proprio facile da digerire. Ma quando vestiva l’azzurro della Nazionale, dimenticavamo la Juventus, il Milan o l’Inter di turno. Era solo Baggio, patrimonio nazionale al di là di qualsiasi club in cui giocasse o avesse giocato. Era l’eroe dello Stivale pallonaro. Sì, perché “fortissimo Vialli!”, “mitico Signori!”, “che killer Balbo!”, “che classe Mancini!”, però poi alla fine eravamo tutti ferventi Baggisti. Una cosa vagamente blasfema, se vogliamo, del tipo: “Credo in un solo Roberto, attaccante onnipotente…”.
La verità è che poche cose sono state altrettanto nazional-popolari: Baggio è come Battisti, come il ragionier Ugo Fantozzi, come Bud Spencer e Terence Hill, come Mai Dire Gol! e Bim Bum Bam. Perché ha accompagnato per anni qualsiasi italiano: ricco e povero, istruito ed ignorante, di sinistra e di destra. Non faceva differenza. Si è fatto amare da tutti. Ci ha traghettato all’interno delle nostre stesse esistenze: dall’infanzia all’adolescenza, dall’adolescenza all’età adulta, e così via. Roby è stato molto più di un semplice calciatore: ha traghettato un’intera nazione nel nuovo millennio, ha rappresentato la pietra di paragone, allo stesso tempo zenit e nadir, di un popolo e di un paio di generazioni.
Ricordo perfettamente il 17 luglio ‘94, quel maledetto rigore sbagliato. Avevo sette anni e della vita non sapevo ancora un accidente, ma mi commossi. Forse è anche a causa di quel giorno, di quell’errore, se oggi mi appassiono alle storie tristi piuttosto che a quelle con un happy-end. Perché d’un tratto, il Divin Codino mi apparve imperfetto, incompiuto, fallibile. Mi apparve in tutta la sua straordinaria umanità. E lo amai – sì, lo amai davvero. Perché capii, una volta per tutte, che le debolezze, le paure, gli errori e i rimpianti sono le nostre maggiori ricchezze. Perché “le anime più forti sono quelle temprate dalla sofferenza, i caratteri più solidi sono cosparsi di cicatrici”. Ecco, quel giorno il me-bambino vide tutte le cicatrici di Roby. E giurò a se stesso che, da quel momento in poi, gli avrebbe sempre voluto bene. Non è commiserazione, bensì pietas: il sentimento più sincero, più profondo e più bello che esista. Quello che ci rende umani.



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