Mentre l’angelo nero in maglia bianca raccoglie il pallone per sistemarlo sul dischetto, Alberto pensa al salmone.
Sì, ha davanti a sé Edson Arantes do Nascimento, meglio noto al mondo come Pelé, ma lui pensa ai salmoni. Conosce la loro storia, perché li ha venduti – insieme ad orate, spigole, calamari e “mazzancolle” – dai dodici ai venti anni, quando lavorava al banco del pesce della zia in Piazza Vittorio.
Sa che i salmoni, dal mare, risalgono controcorrente i fiumi per riprodursi: si sottopongono ad un viaggio estenuante, faticosissimo, che dopo la deposizione delle uova li porta alla morte. Ecco, lui di certo non intende morire, ma mentre si sistema tra i pali in attesa che O Rei calci il rigore, si sente come un salmone, chiamato ad un’impresa a dir poco titanica.
Del resto, la vita calcistica di Alberto Ginulfi è stata spesso una nuotata contro le correnti, e lo sarà persino in futuro, anche se lui ancora non lo sa. È approdato a Roma, nella sua amata Roma, da ragazzino, e tutti dicevano un gran bene di lui: eppure si è ritrovato a fare da secondo a Cudicini prima e a Pizzaballa poi. Perché, nonostante la sua figurina fosse introvabile, lui in campo c’era sempre.
Sette lunghi anni ad aspettare il suo turno, giocando solo di tanto in tanto; quindi, nel ’68, la definitiva promozione a portiere titolare.
Ora, il 3 marzo 1972, è ritenuto tra i migliori estremi difensori d’Italia.
“È moderno”, dicono di lui. Spavaldo nelle uscite, reattivo come pochi tra i pali, ma soprattutto ha una dote che di questi tempi in pochi posseggono: sa impostare. È bravo con i piedi, oltre che con le mani, ed è quindi utile nella costruzione da dietro del gioco. E visto che dall’Olanda spirano venti di “calcio totale”, lui sembra l’uomo giusto al momento giusto. Se n’è accorto subito, quel vecchio volpone del Mago Herrera, perciò lo ha fatto diventare il suo numero 1.
Peccato che si tratti della Rometta, altrimenti si sarebbe potuto dare del filo da torcere anche alle grandi del Nord. E peccato che in Nazionale lo chiudano Albertosi e quel ragazzo friulano, Zoff, altrimenti difenderebbe la porta degli Azzurri…
Pelé, le mani sui fianchi, gli rivolge un’occhiata in attesa che l’arbitro fischi. Va per le trentadue primavere, la Perla Nera, ma per uno come lui l’età può mai fare una qualche differenza? D’accordo, non ha la reattività, l’esplosività e la velocità dei vent’anni, ma lo hanno visto tutti, due anni prima, quando è salito in cielo e ci è rimasto fino a quando il pallone ha incontrato la sua testa. Un sigillo alla sua irraggiungibile grandezza: il terzo Mondiale vinto in carriera. Alberto ha già avuto modo di affrontarlo in occasione di un triangolare amichevole del ’67: è stato come assistere alla rivelazione dei segreti di Fatima, un’epifania che nemmeno la penna di Joyce sarebbe stata in grado di raccontare.
Ora è lì, il più grande calciatore di tutti i tempi. A quindici metri da lui, un portiere qualsiasi: uno che ha vinto due Coppe Italia e niente più, uno che a trentuno anni ha collezionato solo qualche presenza nella Nazionale B. Eppure, messi l’uno di fronte all’altro, non sono altro che due uomini – anzi, due salmoni, perché nella vita hanno dovuto risalire la corrente per raggiungere il loro scopo. Sono uguali: uno è nero e ha vinto tre Mondiali, l’altro è bianco e la Coppa del Mondo l’ha guardata solo da spettatore, eppure in quel preciso istante le differenze sembrano azzerate dal silenzio dei quasi novantamila presenti all’Olimpico.
Il direttore di gara soffia nel fischietto.
Il brasiliano sposta il corpo verso sinistra per cercare di ingannare Alberto, ma lui non abbocca e si tuffa a mano aperta.
Mentre si lancia verso il pallone, accade qualcosa di inspiegabile: Ginulfi viene proiettato nel futuro e il pallone che cerca di intercettare si tramuta in una sfera di cristallo, all’interno della quale il portiere che da ragazzo vendeva il pesce al mercato vede ciò che lo aspetta. È un cosiddetto “flash-forward” di quelli da film, in cui le immagini scorrono talmente veloci che quasi si fa fatica a star loro dietro.
Alberto che viene fermato dai medici, un mercoledì come tanti altri: “anomalia cardiaca”, dicono.
Le visite a Roma, Pisa e Manchester, dove nessuno ha il coraggio di dare il via libera al suo ritorno in campo.
Il ricordo di Giuliano Taccola, uno dei suoi più cari amici, stroncato da un arresto cardiaco negli spogliatoi a Cagliari. La paura di essere destinato a fare la stessa fine.
Quindi il rientro in campo, ma con il timore ad incatenarlo e la reattività che sembra essere venuta meno. Qualche gol di troppo preso, che sugli spalti fa borbottare a malincuore: “Due anni fa, Ginulfi quel pallone l’avrebbe controllato anche bendato…”. Per i tifosi e non solo diventa “Cuore Matto”: un soprannome che sintetizza perfettamente la bonaria ironia e il cinismo tipicamente romani e romanisti.
Quindi il ritorno in tribuna, le sporadiche presenze in Mitropa Cup, mentre a difendere i pali in campionato e nelle coppe c’è il giovane Paolo Conti.
E infine l’addio, inevitabile a quel punto – ma non per questo meno doloroso – alla maglia giallorossa. Un anno a Verona, che va piuttosto male; la parentesi a Firenze, come vice di Superchi; l’ultimo anno alla Cremonese, prima di appendere i guanti al chiodo.
Alberto vede tutto questo.
Vede Giacomino Losi “Core de Roma” che segna, con una costola rotta, il secondo e ultimo gol della sua carriera regalando una vittoria in extremis alla Roma contro la Samp pochi anni prima.
Vede “Picchio”, Giancarlo De Sisti, che è un mezzo parente, dato che Alberto ha sposato sua cugina.
Vede la “colletta del Sistina”, quando la Roma, sull’orlo del fallimento, chiese aiuto ai tifosi, e Losi passò tra la gente con un cestello in mano per raccogliere le offerte.
Vede Giuliano, il caro Giuliano, riverso a terra mentre i medici cercano invano di rianimarlo.
Alberto vede passato e presente, e si trova a pensare che la vita e il pallone sanno essere infami, ma possono anche regalarti momenti indimenticabili.
La vita, il calcio e la Roma. Che poi, se ci pensi bene, sono la stessa cosa: declinazioni diverse di un unico concetto, lungo come il fiume che ti ostini a risalire controcorrente, con l’acqua che si diverte a spingerti giù.
Ma tu continui a nuotare. Perché sai che il mare è lì che ti aspetta, pronto ad offrirti il momento più bello di tutti. Quello che ti ripagherà di tutti i sacrifici, le sofferenze, i dolori e le delusioni.
Come quando parasti quel rigore a Pelé.
Scrittore per necessità dell’anima, giornalista per vocazione, sognatore di universi paralleli, non ha mai ceduto alla realtà. Nostalgico all’ultimo stadio, posseduto dal “Sehnsucht” Romantico e innamorato della Bellezza, ritiene che il rock’n’roll, la Roma, Shakespeare e la carbonara siano le quattro cose fondamentali per cui valga la pena vivere.