Madrid, stazione di Puerta de Atocha
Ottobre 2008
«Que lees?».
Una voce roca e impastata mi desta all’improvviso dalla lettura che mi aveva isolato dal baccano e dal viavai tipico di una stazione ferroviaria. Sono seduto in prossimità della grande aiuola al centro di Puerta de Atocha, dove troneggiano palme ed altre piante tropicali che nell’entroterra spagnolo sono a dir poco fuori luogo, ma che lì – chissà come mai – sembrano perfettamente a loro agio. Volto la testa in direzione della voce e mi trovo di fronte un uomo con lunghi capelli grigi raccolti in una disordinata crocchia sulla nuca, che mi rivolge un sorriso pieno di buchi: avrà sì e no una decina di denti in bocca, puzza parecchio e ha gli occhi che sembrano coperti da un velo giallognolo. Indossa una camiciona di flanella a quadri, sotto la quale si intravede una t-shirt verde oliva su cui è stampata una stella rossa e la scritta “Combat Rock”.
Ne girano di tizi strani, qui in stazione: ormai lo so, anche se vivo in Spagna da poco più di un mese e ad ottanta chilometri da Madrid. Per un attimo penso di alzarmi e andarmene, ma ho il treno tra più di un’ora e pochi euro in tasca, quindi non potrei neanche rifugiarmi in un bar. E poi, a due passi c’è il gabbiotto della Guardia Civil, per cui mi sento abbastanza al sicuro. Il tizio che ho di fronte, in fondo, sembra solo un innocuo clochard. Gli mostro il libro sul Barcellona che sto leggendo. Sì, sono a Madrid e leggo un libro sul Barça, e allora? Me lo hanno regalato degli amici quando hanno saputo che mi trasferivo a Toledo per l’Erasmus. «Si tratta pur sempre di Spagna, no?» mi hanno detto ridendo. I catalani, forse, non avrebbero trovato altrettanto divertente la loro battuta… Il barbone fa una specie di risata amara e catarrosa, quindi con un cenno della mano sembra voler allontanare il mio libro.
«No te gusta el Barça?», gli chiedo. Domanda retorica, lo so.
«A mi, solo el Madrid me gusta!», esclama serio, portando una mano al cuore.
Annuisco. Per qualche secondo tra noi due cala il silenzio: la conversazione sembra essere finita, quindi sto per rituffarmi nel libro, quando il tizio mi dice qualcosa. «Perdona? Puedes repetir?», gli chiedo nel mio spagnolo ancora zoppicante.
«Saetarrùbia», ripete lui.
La pronuncia come se fosse un’unica parola ed io, acerbo ventunenne, non capisco a cosa si riferisca. Anzi, penso che stia delirando, che stia buttando lì parole di nuovo conio a caso. “Saeta…”, dice, muovendo a zig-zag un dito dall’alto verso il basso; “…rubia”, e indica la mia testa. La saetta bionda. Cos’è, siamo in un quiz a premi in cui i concorrenti vengono scelti a loro insaputa nelle stazioni ferroviarie spagnole? Oppure sto appena prendendo parte ad una conversazione non-sense in stile Alice nel Paese delle Meraviglie? Al posto del Brucaliffo, a me tocca un clochard puzzolente e dalla lunga barba grigia. «Alfredo. Alfredo Di Stéfano», insiste il mio nuovo amico, incredulo del fatto che io ancora non abbia capito.
«Ahhhh!». Ora ho capito. Ce n’è voluto, ma finalmente nella mia testa si accende la lampadina. «Grande calciatore!», gli dico in spagnolo. «Un campione! Lo conosco, certo». A quel punto il mio Brucaliffo senza fissa dimora si rilassa, sorride sdentato e mostra una mano aperta. «Cinque Coppe dei Campioni, ha vinto» , mi spiega nella sua lingua. «Nessuno è mai riuscito a fare altrettanto nella storia del calcio. E sai perché?».
«No. Perché?».
«Perché nella storia del calcio non c’è mai stato un giocatore come Di Stéfano. Mai». Lo ripete due-tre volte, quel “nunca”.
«E Cruijff, allora? Maradona? Pelé?», lo incalzo, perché il discorso comincia a farsi interessante, come sempre per il sottoscritto quando c’è di mezzo un pallone che rotola.
«Don Alfredo è stato… il calcio», si stringe nelle spalle. «E io ho pietà per i ragazzi come te, che non l’hanno mai visto».
Qui si interrompe, tanto da farmi credere che la conversazione sia finita. Invece no. Raschia la gola, quindi espettora con grande nonchalance per terra.
«Quando Bernabéu lo acquistò dai Millonarios, avevo otto anni. Sì, era il 1953. Ho sessantatré anni, io, sai?».
Sorrido e annuisco, non sapendo come commentare la sua affermazione. Dovrei per caso dirgli che non li dimostra? Sembra che ne abbia almeno quindici di più.
«Andavamo a Chamartín, da ragazzini, a vedere la squadra che si allenava. Sai cos’è Chamartín?».
«No».
«Chamartín è quello che oggi tutti conoscono come Estadio Santiago Bernabéu: prese il nome del presidente un paio di anni più tardi. Eravamo piccoli, sporchi e senza una peseta… proprio come ora!», esclama ridendo e indicando se stesso. «Tìo, Alfredo era un genio, credimi. E un leader nato: dirigeva i compagni in mezzo al campo, si metteva due dita in bocca, così…», si caccia in bocca due indici lerci e lancia un fischio che fa voltare mezza Puerta de Atocha. «…E dava indicazioni. “Tu stai qui, tu scali, tu copri quello spazio, segui me…”. Era un continuo, tartassava tutti gli altri come un martello pneumatico».
Butto il libro sul Barça all’interno dello zaino: mi pare chiaro che la lettura è sospesa, almeno finché non sarò sul treno.
«La finale di Coppa dei Campioni del ‘60 me la ricordo alla perfezione, anche se sono passati quasi quarant’anni. Davvero, non scherzo: ce l’ho stampata nella mente, fotogramma per fotogramma. L’Eintracht Francoforte era una grandissima squadra, credimi, ma quel giorno i tedeschi fecero davvero la figura dei brocchi. E pensare che erano anche passati in vantaggio! Poi però don Alfredo, davanti ad oltre centomila persone, si rimboccò le maniche e ribaltò il risultato praticamente da solo nell’arco di sette minuti. A quel punto entrò in scena anche Puskas e l’Eintracht fu sotterrato con sette gol. Nessuna squadra ne ha presi tanti in una finale… ma mica tutte hanno dovuto affrontare Di Stefano e Puskas insieme!”.
Nel ricordare quel match di quasi quattro decenni prima, al mio nuovo amico brillano gli occhi.
«Era talmente superiore agli altri che… era imbarazzante, amico. Imbarazzante. Una volta riuscimmo ad incontrarlo mentre lasciava lo stadio dopo una partita: all’inizio ci rivolse un’occhiata un po’ schifata… Come biasimarlo, del resto? Eravamo lerci, probabilmente puzzavamo come cani randagi! Ma Josè si aggrappò alla sua gamba e lui si vide costretto a fermarsi. Aveva un pallone, con sé, sa Dio perché: forse aveva segnato una delle sue innumerevoli triplette. Ce lo regalò con un sorriso e, se la memoria non m’inganna, ci allungò anche qualche peseta… Grand’uomo, Alfredo!”.
A questo punto, oso. Me la rischio. «Però era ritenuto molto vicino a Franco, no?».
Lui si irrigidisce e per qualche istante temo che voglia staccarmi di netto la testa dal collo. Invece mi rivolge un’occhiata di finto rimprovero e risponde: «Cosa vuoi che ti dica… Il Real stesso, all’epoca, era diventato il simbolo del franchismo. Perché era la squadra di Madrid, la più blasonata… e perché il Generale aveva un debole mai nascosto per le Merengues. Ma Di Stéfano… cosa vuoi che gliene fregasse, di Franco? Si limitava a giocare a pallone, e lo faceva divinamente. Te lo dico, per me Franco è la merda: ha rovinato questo Paese per decenni e grazie a Dio è morto e sepolto… Ma il calcio è un’altra cosa. Il calcio è arte, divertimento, entusiasmo: Di Stéfano, franchista o meno, è stato tutto questo, e molto altro ancora. Quando lo vedevi in azione, mentre recuperava il pallone nella nostra metà campo e dieci secondi dopo lo buttava nella rete avversaria… beh, non pensavi alla politica, alla dittatura e a quel cabrón di Franco. Forse è sbagliato, forse è proprio questo ciò che vogliono i potenti, ma… Di Stefano ha illuminato la mia infanzia e adolescenza di merda. Lui e la ‘vieja’, la palla, sono i ricordi migliori di quegli anni. Erano la luce… erano il mio sole».
A questo punto si intristisce. Abbassa lo sguardo, perso dietro chissà quali pensieri.
Provo a tirarlo su: «E Puskas?».
Lui mi regala uno dei suoi sorrisi sdentati e si stringe nelle spalle. «Di Puskas ti parlo un’altra volta, chissà…».
«Bien”, gli rispondo. «Ora io devo andare, ho un treno tra poco».
«Non è che avresti qualche soldo? Non mangio da ieri…», mi chiede.
Mi frugo nelle tasche dei jeans: trovo solo una banconota da cinque euro e gliela allungo. «Non ho altro».
Lui unisce i palmi delle mani in segno di ringraziamento e fa scomparire con abile mossa i soldi in una tasca interna della camicia consunta. «Gracias, tio», mi fa. «Que te vaya bien. Hasta luego».
Lo saluto e mi avvio verso il varco a ridosso dei binari. Quattro anni prima, un attentato qui ad Atocha ha ucciso quasi duecento persone e ora i controlli sono serrati. Una volta passato il metal detector, mi volto a guardare l’area verde dove ero seduto fino a poco prima. Il clochard non c’è più, scomparso con la stessa velocità di don Alfredo, la “Saeta Rubia”, che recuperava palla a ridosso della sua area e pochi secondi dopo la buttava dentro la porta avversaria.
Scrittore per necessità dell’anima, giornalista per vocazione, sognatore di universi paralleli, non ha mai ceduto alla realtà. Nostalgico all’ultimo stadio, posseduto dal “Sehnsucht” Romantico e innamorato della Bellezza, ritiene che il rock’n’roll, la Roma, Shakespeare e la carbonara siano le quattro cose fondamentali per cui valga la pena vivere.