Le mani a coprire il volto, la testa leggermente chinata in avanti mentre il corpo resta fermo, con le gambe unite. Dietro di lui, Vujovic cede alla disperazione e si piega sul terreno con la testa che sembra volersi immergere nel prato verde. È probabilmente questa la foto più famosa di Tomislav Ivic, scattata il pomeriggio del 4 maggio 1980, pochi secondi dopo l’annuncio della morte del maresciallo Tito. La disperazione, quella di Ivic, dello stadio e di un Paese intero, segna la fine di un’epoca, preparando, pur senza esserne a conoscenza, la strada verso il disfacimento dell’intera Jugoslavia. Ma quella sera, così vicina alla fine della stagione calcistica, segna anche la fine dell’avventura di Tomislav Ivic nella sua Spalato, la conclusione del periodo più brillante mai vissuto nella storia dell’Hajduk, quando tra lo Stari Plac e il Poljud si portava in scena il “calcio industriale“.
Una sorta di rivoluzione collettivista, che proprio lui, spalatino fino al midollo, aveva portato a compimento verso la metà degli anni 70′, allineando il calcio sui binari di una società in netto cambiamento. Così, mentre Spalato si apprestava a somigliare sempre più ad alcune città del nord dell’Inghilterra, progressivamente avvolta da uno scenario tutto tute blu e canne fumarie e con la quotidianità scandita dai turni in fabbrica, la Jugoslavia viveva gli anni del boom economico – l’ultimo che andrà ad abbracciare l’intera Federazione – e dei cambiamenti politici, con la promulgazione della quinta – ed ultima – Costituzione del 1974.
Ed è in questo periodo che Tomislav Ivic mette in campo i capisaldi in cui crede fermamente: lavoro e organizzazione. Valori imparati nel corso di una vita intera giù al molo, dove negli anni ’50 l’allenatore si guadagnava da vivere. Giornate intense, da otto ore al giorno e dieci chilometri a piedi. Già, perchè una volta dismessa la tuta da operaio, ad attenderlo c’era la divisa da calciatore, per lui come molti dei suoi colleghi. Di giorno il corpo in fabbrica, la sera i piedi e il cuore in campo, a rappresentare Spalato con l’unica maglia che, in quell’ambiente, valesse la pena indossare. No, niente Hajduk, almeno non per ora, perchè il cuore dei portuali di Spalato batteva quasi all’unisono per il ben più modesto Rnk, la squadra che da quelle parti rappresentava conflitto e riscatto sociale. Fin dal 1912, quando era stata fondata con il nome di Anarh – togliendo una c per evitare l’immediata cancellazione – durante uno sciopero studentesco, creando non pochi grattacapi agli austro-ungarici prima e al Regno di Jugoslavia poi.
Ma il periodo passato al Rnk sarà fondamentale per Ivic sopratutto dal punto di vista sportivo. È fuori da ogni dubbio difatti che il calcio industriale nasca qui, nei 4 anni passati, dal 1953 al 1957, con la maglia dei rossi di Spalato. In campo difatti la squadra porta le idee di Luka Kaliterna, ex giocatore e allenatore dell’Hajduk vincitore del campionato del 1927. Il calcio di Kaliterna si basa su due capisaldi: primo, la squadra deve sapersi muovere come una spugna, contratta quando si difende ed estesa quando attacca; secondo, parafrasando la sua massima «è il gioco a segnare, non il giocatore», il collettivo è più importante del singolo, le cui qualità vengono misurate solo ed esclusivamente in relazione all’apporto che riescono a dare al gioco di squadra.
Luka Kaliterna e vita portuale, la genesi del calcio industriale non potrebbe essere descritta meglio. Un’impostazione definita da molti come “socialista”, basata su duro lavoro, determinazione e organizzazione, nella quale il talento individuale altro non è che una materia prima, da lavorare con pazienza al fine di renderla l’ingranaggio perfetto di un meccanismo studiato con grande precisione. Alla base, una serie di schemi ripetuti allo sfinimento e una maniacale attenzione per i dettagli. Se ci pensate, sono i punti focali su cui Arrigo Sacchi baserà il suo approccio rivoluzionario al di qua dell’Adriatico oltre dieci anni dopo. Entrambi per diversi aspetti geniali, folli, visionari, mai compresi fino in fondo da giocatori e dirigenti. D’altronde, è risaputo che i problemi che Sacchi ebbe con Van Basten, Ivic li ebbe con Krol ad Amsterdam nel primo dei due anni in cui si ritrovò a sostituire un certo Rinus Michels tra il 1976 e il 1978. Uno scudetto, una stretta di mano e poi il ritorno a Spalato. Perchè il calcio industriale, a differenza di quello totale e della sua variante “sacchiana”, prediligeva l’insegnamento dei meccanismi difensivi, un mantra tutt’altro che digeribile dai fini palati di Amsterdam.
Tuttavia, sarebbe errato consegnare alla storia un Tomislav Ivic impegnato costantemente nella distruzione del gioco altrui. Il suo era un atteggiamento dettato dal pragmatismo, dalla convinzione secondo cui sia «più facile difendere che attaccare», e che pertanto solamente una volta assimilati i meccanismi di copertura si sarebbe passati alla transizione e alla fase offensiva. E non si pensi nemmeno che l’esperienza olandese sia stata pressoché inutile, perchè l’Ivic che torna a Spalato nell’estate del 1978 è un «uomo in missione», con un bagaglio arricchito pronto per essere messo in campo. Nel suo linguaggio entrano concetti di biomeccanica, che trasformano il pressing – portato all’esasperazione – nel «cuore pulsante del nostro calcio», e la squadra in un muscolo, elastico ed organico nel passaggio dalla fase difensiva a quella offensiva. Il biennio ad Amsterdam gli ha permesso di aumentare i ritmi di gioco, di far muovere i suoi concetti in uno spazio in cui è l’istinto a guidare la transizione. Ivic mette in campo il futuro, quello che, come avrà modo di dire nel 2010, un anno prima di morire, «sarà dominato da formazioni composte da sole due linee, ciascuna delle quali includerà il miglior tecnico come specialista – il più arretrato come un libero modificato e new age, che fornisce i migliori passaggi e si muove come il quarterback nel football americano, mentre quello davanti per capeggiare l’attacco non grazie al fisico, potenza o velocità, ma creatività e intelligenza di posizione».
“Ma gloria e trofei – spiegava ancora Ivic – apparterranno a quelle squadre che saranno in grado di giocare a ritmi elevati per tutta la partita, a raggiungere gli automatismi e agire d’istinto in transizione, pressando molto alti sul pallone“. E qui si spiega il suo autodefinirsi un «uomo in missione»: Ivic nel 1978 torna a Spalato perchè è convinto di poter fare il grande salto, perchè crede fermamente di poter portare la squadra dalmata sul tetto d’Europa. Nel suo bagaglio poteva vantare 2 campionati jugoslavi e altrettante coppe, ai quali si andava ad aggiungere il titolo appena conquistato con i Lancieri. Ma quell’assenza bruciava, insieme alla nomea che l’Hajduk si era fatta come squadra “da casa” incapace di reggere il confronto continentale quando impegnata trasferta. Così era successo nel 1974, quando il 3-0 casalingo contro il Saint-Etienne non era bastato per via del 5-1 subito in casa dei francesi, e poi due anni dopo, quando al 2-0 maturato allo Stari Plac contro il Psv aveva fatto seguito la sconfitta ai supplementari per 3-0.
Ci riuscì? No, e per un soffio, come nella migliore tradizione del calcio jugoslavo, anche se la gara di ritorno contro l’Amburgo, giocata in casa, valida per i quarti di finale di Coppa Campioni, entra di diritto nella storia del calcio. L’andata si era giocata Volksparkstation, non rinunciando ai soliti difetti, aveva perso per 1-0. Ma al ritorno il Poljud è pieno, con 11 giocatori in campo e 52.000 sugli spalti che si muovono e urlano davvero come un uomo solo. L’Hajduk sfoggia un gioco di prima ai limiti del paranormale, con i giocatori che si scambiano di continuo la posizione mandando nel panico gli avversari. In quella partita il calcio industriale si manifesta in tutta la sua completezza, con il “muscolo” che si contrae ed espande alla perfezione, dove l’istinto precede la ragione e guida transizioni fulminee. Tuttavia, c’è solo un particolare che Ivic non può controllare: l’errore umano, la variabile impazzita che condannerà il suo Hajduk a restare nell’infelice mondo del “se quella volta”. Succede tutto all’improvviso, ad appena cinque minuti dal fischio d’inizio, quando Boro Primorac svirgola il pallone e stende il tappeto rosso al vantaggio tedesco firmato Horst Hrubesch. Primorac cercherà di rifarsi segnando il gol del pareggio, e l’Hajduk alla fine avrà ragione dei tedeschi per 3-2, ma i gol di trasferta, siano stramaledetti i gol in trasferta, condanneranno gli slavi, consegnando il passaggio del turno ai tedeschi.
La verità è che fu questa partita, più che la morte di Tito, al quale comunque si sentiva particolarmente legato, a portare in Ivic la conclusione per cui il suo ciclo a Spalato aveva raggiunto il massimo splendore ed era giunto a conclusione. Fu più che altro spinto dal desiderio di contaminarsi e contaminare, di portare il suo calcio in giro per l’Europa e di arricchirlo ovunque ne avesse avuto l’occasione. In fin dei conti, tra Belgio, Grecia, Portogallo, Italia, Francia e Spagna, per più di 20 anni Tomislav Ivic ha conquistato otto trofei – compresa una Supercoppa Europea e un’Intercontinentale – portando in giro il miglior calcio jugoslavo, mentre il suo Paese veniva fatto a pezzi, stagione dopo stagione, anno dopo anno.
La Jugoslavia inizierà così a viaggiare con lui e dentro di lui. Presente e passato, Luka Kaliterna, le giornate al porto e gli scioperi, tutto ricomincerà ogni volta in un posto diverso. Una stagione, un trofeo, e poi di nuovo un’altra avventura. E allora mi piace immaginarlo mentre parla con la sua nuova squadra, mentre obbliga i suoi nuovi giocatori ad esercizi ripetitivi e snervanti, elementari e noiosi. Mentre infonde in loro un nuovo modo di lavorare, di concepire il calcio, mentre regala la sua eredità, la sua vita, storie che non vivono soltanto novanta minuti a settimana. E, se permettete, mi piace pensare che lo faccia utilizzando le parole pronunciate nel finale di Underground, il capolavoro di quell’altro visionario jugoslavo che risponde al nome di Emir Kusturica:
«In questo posto abbiamo costruito nuove case, con i tetti rossi e i comignoli su cui faranno i nidi le cicogne. E con le porte sempre aperte agli ospiti. E saremo grati alla nostra nuova terra che ci nutre e al sole che ci riscalda. E ai campi fioriti, che ci ricordano i cilim colorati della nostra patria. Con dolore, con tristezza e con gioia ricorderemo la nostra terra, quando racconteremo ai nostri figli storie che cominciano come le fiabe: c’era una volta un Paese..»
Bibliografia essenziale
Holiga A., “A man for all Seasons“, in “Blizzard – The Football Quarterly: Issue Ten“, 2013
Amstrong D., Tomislav Ivić – The Story of Croatia’s Master Strategist, in Futbolgrad.com
Kramarsich I., “Lo Split deve i natali al movimento anarchico. I rivali l’Hajduk e gli italiani“, in “La voce del Popolo“, 12 novembre 2011
Ducksbury C, “Hajduk Spit v Crvena Zvezda (abandoned), in Blizzard – The Football Quarterly: Issue Nineteen“, 2015
Ideatore di progetti a tempo perso e appassionato di film in serbo-croato con sottotitoli improponibili, parlerebbe per ore di calcio, di politica e di Jugoslavia. Se poi riesce a far entrare tutto nello stesso discorso, preparatevi al peggio. Forse ha aperto Storie del Boskov perché nessuno è più disposto ad ascoltarlo.