«Per fare arte devi dare le spalle alla vita. Non ti puoi accontentare di fare come tutti, di essere come tutti. Non ti puoi compiacere nel percorrere una linea retta, senza incroci, senza brusche virate, senza momenti di incertezze nel decidere quale strada intraprendere. Non puoi correre pensando che l’obiettivo da raggiungere sia sempre di fronte a te. A volte è di lato, altre volte è in alto. Molto spesso è alle tue spalle e non te ne accorgi perché non lo vedi. Ma non serve vederlo. Basta sentirlo. Lungo la schiena, come un brivido di qualcosa che sta per accadere. Per andare da A a B, ti hanno già insegnato, c’è un’unica via logica, la più veloce. Non percorrerla. La via più veloce è banale, è scontata, è soporifera. Arriverai a B ma non sarai soddisfatto di te. Il viaggio che ti avrà portato fin là non ti avrà fatto crescere, non ti avrà reso diverso, anche più fragile se necessario. Il bello arriva quando ci si perde. Quando si ha la calma per assaporare ogni istante, per goderselo fino in fondo quel viaggio che da A magari non ci porta a B, ma ci riporta alla A di partenza. Perché l’avventura può essere anche dietro di noi. La precisione, il rigore, la meticolosità, la puntualità lasciale a chi è seduto dietro una scrivania. Te scendi in campo e vivi, dando le spalle alla vita, facendo arte. Andando dove gli altri non si aspettano, mettendoci il tempo necessario ad arrivare. Non ti incurvare sui tuoi gomiti, quindi non ti annoiare, non ti lasciare andare alla consuetudine. E non cedere a chi prende decisioni a nome tuo. Il tuo pensiero, come quello del tuo compagno, come quello dell’uomo che ti passa vicino in questo istante, è fondamentale. Alza il pugno e di la tua. Fatti sentire. Sei uno, sei piccolo, ma se ti metti insieme agli altri sarai grande, sempre più grande. E un pugno diventeranno cento. Una voce diventerà un urlo. Divertiti sempre, come quando eri bambino. Giocare a calcio è appunto un gioco. Non fargli mai perdere la naturalezza di due bambini che si sfidano per strada, sotto casa. Non fargli mai avere un’importanza maggiore di un ginocchio sbucciato. Il calcio è un sogno e tale deve rimanere. Ininterrottamente. Compi sempre un gesto che possa stupire, abbagliare, lasciare a bocca aperta. Così quel che fai avrà ancor più significato. Sarà maggiormente apprezzato e avrai compiuto una piccola rivoluzione. Non ti sarai omologato, non ti sarai appiattito, non ti sarai spento passo dopo passo, calcio dopo calcio, gol dopo gol. Per fare arte devi dare le spalle alla vita. E colpire di tacco»
Sócrates era il filosofo del calcio. Immaginare una sorta di testamento spirituale, spiazzante e irriverente come il suo genio, è stata un’avventura stimolante. Capitano della nazionale brasiliana dal 1982 al 1986 e medico, Socrates è l’inventore della Democracia Corinthiana. Siamo nel Brasile degli anni ottanta, un Brasile in cui la dittatura del generale Figuereido è ancora in vita anche se non se la passa benissimo. E siamo nello spogliatoio del Corinthians, squadra di calcio brasiliana da sempre vicina al proletariato. In quello spogliatoio nasce un’idea di democrazia, un’idea di ribellione al regime: ogni decisione, anche la più piccola, viene presa per alzata di mano da tutta la squadra. E in campo, sulle magliette, c’è sempre ben stampato un messaggio politico chiaro di condanna alla dittatura. Il suo esponente maggiore è appunto Sócrates. Lui alza il pugno a ogni gol segnato, ma soprattutto lui gioca e segna in modo diverso dagli altri, spesso di tacco. Il calcio è un modo per ribellarsi, per essere un rivoluzionario. «Sócrates era soprattutto il genio del colpo di tacco. Cioè, un giocatore che usa abitualmente un numero da esteta, una ricercatezza stilistica che magari fa godere gli appassionati, ma di sicuro manda in bestia gli allenatori. Questi vorrebbero che i loro giocatori applicassero in campo le loro direttive, attraverso gesti semplici, come se attraverso il gesto semplice si esprimesse il senso d’una disciplina collettiva che comincia ad attuarsi attraverso la disciplina individuale […]. A quella forma di controllo di Doutor rispondeva colpendo di tacco tutte le volte che sentiva di farlo. Un atto estetico, ma forse anche una rivendicazione politica profonda. Il calcio è un gioco sognato dai bambini che poi da grande può diventare una professione. E quella professione può richiedere lo svolgimento di compiti ingrati […]. Invece per Sócrates il colpo di tacco era un gesto di ribellione, era una questione di resistenza e di affermazione di un’identità politica». Da “Socrates, l’irregolare del pallone” a cura di Pippo Russo, edizione Clichy. Muore domenica 4 dicembre del 2011. È giovane ma malato, visti i suoi tanti eccessi con alcol e fumo. Mentre si spegne il Corinthians, la sua squadra, vince il campionato brasiliano, realizzando l’ultimo sogno del dottore: «Vorrei morire di domenica, nel giorno in cui il Corinthians vince il campionato».
Moretta di nome e di fatto è la frase che la perseguita da quando è bambina. Nomen omen. Si è sempre immaginata con un cesto di more in testa, come una moderna e più gustosa Medusa. La sua fantasia un po’ onìrica, oggi, si è riversata nello sport. I campioni diventano eroi, le loro vittorie o sconfitte gesti epici. Perché lo sport è una favola a occhi aperti.