Le scorribande di Garrincha, le invenzioni di Didì, e poi i gol, cinque, firmati da Pelè, Vavà e Zagallo. Alle ore 13 del 29 giugno 1958 il Brasile scende in strada per festeggiare la conquista della prima Coppa Rimet, ponendo così fine a quasi trent’anni di snervante attesa. Una vittoria roboante, che umilia la Svezia del Gren-No-Li e mostra al mondo la spumeggiante bellezza del futbòl carioca. Eppure, sembrerà strano, ma per qualcuno in Brasile il triplice fischio dell’arbitro rappresenta l’atto finale di un’inaspettata tragedia. Lo sguardo fissa lo schermo, i pugni sbattono violentemente sul tavolo, mentre una lacrima abbandona quegli occhi furiosi per solcare lentamente un viso contratto dall’ira. Dalla casa di cura per malati terminali di Barbacena, Heleno de Freitas vive il giorno più brutto di una vita che troppo presto gli ha voltato le spalle. Vorrebbe essere lì, a godersi il successo che quelli come lui non hanno avuto nemmeno la fortuna di inseguire, e non in quelle quattro mura, lontano nello spazio dal trionfo e nel tempo dall’epoca in tutto il Brasile era ai suoi piedi. Perchè lui era “Il Principe Maledetto”, “Il Re di Copacabana”, il campione che, ancor prima di Pelè, fece innamorare il pubblico sudamericano a suon di gol.
Certo, nè O’Rey nè tantomeno il Brasile avevano colpe per meritarsi tutto quell’odio. Più coerentemente, e senza dover uscire da quell’alone di egoismo che da sempre ne dominava i pensieri, Heleno de Freitas avrebbe dovuto maledire la guerra, a causa della quale non vennero giocate né l’edizione del 1942 né quella del 1946. Erano quelli gli anni in cui la sua stella, dominatrice incontrastata del firmamento carioca, venne offuscata dagli orrori che oltreoceano divoravano una civiltà ormai tale solamente a parole. In fondo, se l’umanità avesse mantenuto fede al suo nome, anche la vita di Heleno de Freitas non sarebbe deragliata in quell’oblio che presto o tardi ne divorò anche le gesta sportive. Duecentotrentasette gol in Duecentottanta partite, un tornado che, dal 1939 al 1948, fu in grado di spazzare via avversari e critici, con questi ultimi sempre poco inclini ad accettare quell’egoismo che portava il talento brasiliano a porre compagni e allenatori un gradino più in basso rispetto al suo ego. Ma le parole rimanevano tali, mentre a quell’attaccante bastava entrare in campo per far mordere la lingua a chiunque fosse pronto per mandarlo al diavolo.
Colto, garbato, amante della musica, della letteratura e delle donne, appena tolti gli scarpini Freitas cambiava radicalmente personalità, saltava in sella alla sua moto e diventava il re dei migliori locali della città: vestito impeccabile, champagne costosissimo e tanti sorrisi beffardi, distribuiti indistintamente a chi lo avvertiva che in quel modo avrebbe dissipato il suo enorme talento. Eppure, nonostante l’alcool e il fumo, le notti brave e gli allenamenti saltati, tutti erano ben contenti di perdonare gli eccessi di Heleno. Perchè sapevano che prima o poi sarebbe arrivato a risolvere le partite, anche se alla fine, trofei alla mano, i suoi gol scivolavano spesso nell’anonimo mondo delle statistiche. Già, perchè quel titolo statale puntualmente sfuggiva dalle mani del Botafogo, per finire nella bacheca di squadre che, pur non potendo vantare un talento così cristallino, erano libere da una presenza così ingombrante, scomoda, che riusciva ad intimidire anche i compagni, e che alla fine costrinse il Fogão a privarsi della sua punta di diamante.
Probabilmente è lì che inizia la fine, è lì che parabola si prepara a lanciarsi in picchiata verso l’abisso. Dal Boca Juniors al Vasco de Gama, Heleno festeggerà i suoi 30 anni allo Junior de Baranquilla, modesta compagine di un campionato arricchito da fiumi di denaro di dubbia provenienza. Il principe torna sul trono, ma è solo il canto di un cigno ormai prossimo alla fine, come testimonia la mancata chiamata ai Mondiali del 1950. Il Maracanazo, l’umiliazione nazionale, sarà l’ultima occasione in cui il grande pubblico brasiliano rimpiangerà le gesta di Heleno de Freitas. Lui sì, diranno, avrebbe distrutto Varela e compagni, i cui giochetti psicologici sarebbero crollati di fronte a quella travolgente mescolanza di classe e sfrontatezza.
Ma Heleno ormai non c’è più, e la statua innalzata in suo onore dai tifosi colombiani racconta una storia che al Santos scrive il suo ultimo capitolo. I gol non mancano, ma ormai l’attaccante è sorretto solo dall’orgoglio, mentre corsa e lucidità iniziano a venire meno con disarmante rapidità. Non lo vuole ammettere, non lo farà mai, ma la sifilide, contratta in una delle sue innumerevoli avventure amorose, lo sta divorando. Heleno rifiuta le cure, non riesce ad accettare una situazione in cui è lui ad aver bisogno di aiuto. Si sente ancora inattaccabile, imprendibile, unico. Come quando Rio era tutta ai suoi piedi e i tavoli dei migliori locali brasiliani aspettavano soltanto che la sua figura apparisse sulla porta. Ma la vita ormai gli sta scivolando addosso insieme alla sua carriera, il cui punto più basso viene sintetizzato in quella pistola puntata addosso all’allenatore nel suo breve periodo al Vasco de Gama.
Finisce così, in un’ultima partita con l’America Rj al Maracanà, lo stadio nel quale avrebbe voluto festeggiare il trionfo ad un Mondiale mai giocato. Uno spettacolo pietoso, con il “Principe Maeldetto” che, abbandonato ormai da ogni parvenza di regalità, si ritrova suo malgrado a recitare la parte del fenomeno da baraccone, schernito da una folla ferocemente ingrata. Per Heleno questa volta è veramente finita, sconfitto da se stesso e dalla sfortuna. Da un’epoca assurda e sbagliata, e da un’ego che sovrastò un talento mai riconosciuto appieno. Probabilmente è per questo che la sera del 29 giugno 1958 Heleno de Freitas non festeggia la prima Coppa Rimet: perchè in quel momento capisce che la sua vita, quella meravigliosa costellazione di gol ed eccessi, non sarebbe mai stata raccontata, oscurata ormai da quei ragazzini che avevano appena portato il Brasile sul tetto del mondo. Così, quando anche l’ultimo tassello di un mosaico una volta perfetto salta, Heleno si arrende definitivamente di fronte alla malattia, perdendo la vita appena un anno dopo. Se ne va così, a soli 39 anni, Heleno de Freitas, il Principe Maledetto, l’unico brasiliano a cui il trionfo mondiale del 1958 rovinò definitivamente la vita.