Quando si arriva a Salonicco dalle alture che la precedono, da nord e da ovest, non si può avere un’idea di quello che ci aspetta. La chiamano la Symprotevousa, la co-capitale. Ma anche in questo caso non è quello che ci immaginiamo. E poi c’è il mare. Lo sfavillante mare della Macedonia colpirà gli occhi del visitatore, facendogli accostare una mano al viso per ripararsi. Sarà quello stesso mare che guardarono due ragazzi del posto di nome Costantino e Mustafà. Il primo insegnerà a scrivere agli slavi di tutto il mondo, con il nome di Cirillo, il Santo protettore dei popoli dell’est. L’altro rimarrà nei libri di storia con l’appellativo di Padre dei Turchi, ovvero Mustafà Kemal Ataturk. Scordatevi per un attimo la Grecia. Qui si guarda a Oriente o al massimo a Settentrione. E allora si capisce anche il soprannome, “co-capitale”: insieme a Bisanzio, non con Atene.
Quando un popolo che è stato grande si guarda allo specchio e scopre gli impietosi segni del tempo, non può far altro che cercarsi indietro e ricordare la grandezza del passato. In Grecia questo accade un po’ in ogni campo: la toponomastica, la politica, la letteratura. Il calcio non è assolutamente immune a questa malattia nostalgica. Non stupisce allora che nel 1908, o meglio un anno più tardi, il Makedonikos Gymnastikos Syllogos, il Club Ginnico Macedone, decise di cambiare nome in Iraklis, Eracle, ovvero Ercole, il semidio della mitologia classica. Le autorità ottomane non potevano tollerare un nome con un chiaro riferimento alla Macedonia, mentre furono più comprensivi nell’accettare i colori della squadra, il bianco e il blu, chiaro richiamo alla bandiera della bramata Grecia.
Mentre in auto ci dirigiamo allo stadio olimpico che ospita le partite dei Giraiós, i canuti, abbandoniamo la zona turistica di Salonicco, per salire su una leggera collinetta. Il lungomare, la torre veneziana e piazza Aristotele da qua non si vedono. E’ appena iniziato l’angolo retto che sfocerà molti chilometri più a sud nelle tre dita della penisola calcidica. Il Kaftanzoglio sembra più uno stadio di atletica. Sempre aperto, con un baretto in cui sportivi con la tuta bianco blu (della nazionale, non del club) vanno a correre, a fare palestra e a tirare col peso. Se non fosse per qualche scritta sul muro e un cartello appena appena visibile sopra il Gate 10 (che è quello che dà il nome al gruppo ultras), non ci sarebbe traccia dell’Iraklis. Dopo un fallimento, qualche anno fa, la squadra sembra di nuovo sull’orlo della bancarotta. L’invincibile Ercole da queste parti non se la passa davvero bene.
Chi se la passa ancora peggio, per quanto in ripresa, è il secondo club più antico della città: l’Aris. Fondato in un bar nel quartiere di Votsi, deve il suo nome al Dio della Guerra, eterno nemico di Eracle. Era il 1914, la Grecia aveva appena finito di combattere, vincendo, una guerra contro l’impero ottomano. L’epica bellica era, come dire, abbastanza forte, e il nome del Marte greco sembrò piuttosto scontato.
A differenza dei cugini dell’Iraklis che non hanno un grande seguito, l’Aris ha un tifo molto caldo (che vede il suo gruppo ultras nei Super 3, dal numero del gate) e rivolge le sue antipatie verso la terza compagine della città, trattando con condiscendenza quelli che invece inizialmente avevano influenzato la scelta del nome. Il giallo oro è il colore della gloria nella cultura macedone e i seggiolini e le scritte fuori dallo stadio Kleanthis Vikelidis (un piccolo gioiellino) ricordano che quelli sono anche i colori dell’Aris. La ragazza a cui chiediamo di farci una foto, con l’impianto alle spalle, è completamente stupita, ha quasi paura che la stiamo prendendo in giro. Da queste parti, a differenza che al Kaftanzoglio, ci sono state anche delle gioie. Prima di sprofondare in terza divisione per i problemi economici che attanagliano un po’ tutto il paese, la bacheca giallo-nera era stata impreziosita con tre titoli di campione di Grecia (e tre secondi posti) e una coppa nazionale (con otto finali perse). Era il 1970 e, se si esclude, il fatto di aver regalato Angelos Charisteas al calcio greco, da allora le soddisfazioni sono state davvero poche.
Se l’Aris nacque sull’onda dell’entusiasmo per la vittoria sull’Impero ottomano nel 1912-13, l’ultimo club di Salonicco deve i suoi natali alla pagina più nera della storia contemporanea greca. All’inizio del secolo Salonicco stupiva il mondo: era l’unica città europea con un’assoluta maggioranza ebraica. Su 120 mila abitanti, 65.000 erano ebrei, 35.000 greci e 30.000 turchi o musulmani. Tuttavia nel 1917 un tremendo incendio travolse la città, coinvolgendo in particolare i beni della Gente del Libro che fu costretta a riparare in Israele od oltre oceano. Proprio questo calo demografico fu l’occasione per ricollocare i profughi greci che in seguito alla Catastrofe dell’Asia Minore scappavano dalla Turchia, cercando riparo nella Madre Patria.
Furono proprio quelle persone che decisero di dare nuovamente una squadra alle loro vite così profondamente sconvolte. Decisero così di chiamarla Panthessalonikios Athlitikos Omilos Konstantinoupoliton, ovvero Pan-Thessaloniki Athletic Club di Constantinopoli, per tutti Paok. Per colori scelsero il nero, del lutto, e il bianco, della rinascita, e come simbolo l’aquila bicefala della Bisanzio ortodossa, per mantenere un eterno legame con il tragico passato. Oggi la squadra è fra le più seguite della Grecia, l’unica che può competere con i grandi team dell’odiata Atene. Il gruppo di tifosi è il Gate 4, gemellato con i Grobari del Partizan Belgrado. Lo stadio, il Toumba per il quartiere dove sorge, è un altro gioiello, sia all’esterno, che per le coreografie che si vivono sui suoi spalti. Quando chiedo al ragazzo che è in fila per rinnovare l’abbonamento se c’è uno shop, lui mi guarda storto: sente violato il suo spazio più intimo. “Vuoi comprare una maglietta? E di dove sei?” “Italiano” “Scendi le scale, destra e ancora destra”. Si volta e neanche mi saluta. Devo stare più attento a non interrompere riti sacri come quelli.
Nonostante i due titoli di campione di Grecia e le quattro coppe nazionali (con sette secondi posti e tredici finali perse) non rendano abbastanza merito alla notorietà di cui la squadra gode nel paese, il Paok oggi rappresenta l’avversario dell’Olympiakos, forse più di Pana e Aek. Non per caso, nell’ultima stagione, ha vinto i playoff per accedere ai preliminari di Champions League e ha fatto soffrire oltremodo la compagine del Pireo in coppa nazionale.
E allora mentre lasciamo Salonicco, verso sud, andando a regalarci quel sole e quel mare che le ansie del lavoro ci negano durante tutto l’anno, pensiamo alle tre squadre della grande Thessaloniki, la co-capitale. E le salutiamo usando per le sue squadre i versi che un altro emerito cittadino di questi lidi, Nazim Hikmet, scrisse durante la prigionia. Due righe di speranza che si sposano benissimo con i sogni di tutti coloro che amano questo sport: I più belli dei nostri giorni | non li abbiamo ancora vissuti.
Nasce in Toscana, ma si trasferisce presto altrove. Sostiene di amare l’Inghilterra, in cui per pigrizia comprende anche la Scozia, ma non l’Irlanda. E anche i Balcani, quelli li ama molto. Dice di fare lo stesso lavoro di Bukowski. Ma come gli ricorda spesso un suo caro amico, dovrebbe smetterla di atteggiarsi, visto che è solo un postino. Odia chi imita l’accento toscano e chi mette in discussione José Mourinho. Vi annoierà principalmente con racconti ambientati nella Perfida Albione e sotto slavi cieli del Sud, non senza grazia.