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Col numero 8 stampato sulla schiena

22nd Ott 2018
Cosa significa portare il numero 8? Cosa succede quando da dietro quell'infinito capovolto del bambino prodigio escono i demoni dell'uomo?
Col numero 8 stampato sulla schiena
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“Capisci, a un certo punto è una voragine. Un buco nero. Voglio dire, un vero buco nero, cazzo. Ti guardi allo specchio al mattino e non vedi che quello. Non riesci più a vedere te. Certo, continui a fare le stesse cose di sempre. Ti vesti, baci i figli, la moglie, vai agli allenamenti, mangi, dormi, trasferte, partite, ma non sai perché lo stai facendo. Cioè, è normale, è abitudine. Come respirare. Ma poi arrivi al giorno in cui ti svegli e tutto è fatica. Ti costa fatica respirare, ti costa fatica alzarti, guardarti allo specchio, vestirti, baciare i bambini, baciare tua moglie, andare agli allentamenti, alle trasferte, alle partite. Dev’essere lì che mia moglie ha deciso di andarsene. Ma non ne sono sicuro. Non ci giurerei. Forse era una decisione che aveva maturato già parecchio tempo prima e quel, come chiamarlo, quel burrone in cui ero caduto, non era stata che l’occasione.

Si prese i bambini e se ne andò. Io tornai a casa dagli allenamenti e non c’era nessuno. E sai cosa? Lo sapevo che se n’era andata. Non potevo credere che fosse semplicemente uscita a fare la spesa. Sapevo che se n’era andata e si era portata dietro i bambini. I bambini, cristo, l’unica cosa che doveva importarmi erano i bambini. Invece mi infilai a letto. Erano le quattro del pomeriggio, le persiane erano chiuse perché fuori il caldo era mortale. E io dentro, al semibuio, in quel letto. Senza alzarmi. Tre giorni dopo venne a prendermi Jackie Ruìz. Mi tirò giù dalle coperte. Mi disse «Alzati, ti porto agli allenamenti». Non volevo. Non me ne fregava niente di allenarmi. Ma lui mi tirò su di peso, mi ficcò in macchina e mi ci trascinò.”

Alfie Freeman, quando ti parla, ha gli occhi lucidi di un vecchio, e invece non ha neppure cinquant’anni. O forse sì. In ogni caso ne dimostra molti, molti di più. Cinquecento, tipo. Era cresciuto nelle giovanili dei Four Lyons: centrocampista avanzato col fiuto del goal. Paul Bradbury, l’allenatore, gli aveva cucito addosso una squadra che gli permetteva di sgroppare verso l’area avversaria con inserimenti da dietro fulminei e letali. Era come scagliare una freccia contro la corazza nemica e colpire là, tra il metallo e la cinghia di cuoio; l’unico punto in cui avrebbe potuto fare male. E lui sapeva come farlo. Almeno, prima che tutto cominciasse a cadere nella tenebra.

“Non so neanche io come sia cominciato. Non, voglio dire, non mi viene in mente una data di inizio. Un evento. Un momento in cui poter dire Prima era così e dopo cosà. So solo che ad un certo punto mi svegliai rendendomi conto che odiavo il campo. Odiavo il calcio. Odiavo il pallone, i compagni. Tutta la dannata baracca. Un cazzo di baraccone, ecco cos’era. Questo lo dico adesso, chiaro, ripensandoci. In realtà all’epoca non sentivo niente. Solo che stavo male. E poi cominciò l’angoscia prima delle partite. Vomitavo. Cercavo di non farmi vedere, cercavo di farlo fuori. Nel parcheggio. Ma la situazione cominciò a peggiorare. Durante la distribuzione delle maglie dovevo spesso assentarmi. Fu lì che mi vide Jackie, che mi venne accanto e mi disse “Tutto bene Alf?” Gli feci di sì con la testa. Cosa volevi che gli dicessi. Sì, sì, tutto bene. Solo un po’ di nervosismo. Giocavamo contro il West, che nervosismo volevi avere che quelli erano quindicesimi, o sedicesimi in classifica. Ma io stavo male. Male. Male male male male male. Non me ne fregava niente. L’unica cosa che volevo era non scendere su quel dannato campo. L’unica cosa. E invece ci scendevo lo stesso. Sai, in tutto quel tempo- inspiegabilmente-, non una sola volta mi è venuto da pensare che avrei potuto essere io a dire No. A dire: Adesso basta, non voglio più farlo. Mi sembra incredibile eppure è così. Continuavo senza scopo contro ogni logica.”

Poi arrivò il periodo in cui pure il goal cominciò a latitare. Niente di grave, ti dicono, sono cose che succedono, ti dicono; ma per Freeman era diverso. Vatti a sapere se fosse la mancanza di goal a creare il malessere o il malessere a determinare la mancanza di goal. Fatto sta che le prestazioni cominciarono a diventare imbarazzanti.

“Già. Mi dicevano Stai sereno, rilassati. Gioca come sai e il goal prima o poi arriverà. Che poi ero un centrocampista. Avanzato finché vuoi, ma pur sempre un centrocampista, quindi la gente da me non si sarebbe dovuta aspettare chissà che. Voglio dire, un centrocampista non è fatto, come dire, geneticamente, per sopportare la pressione di un attaccante. Se hai la maglia numero 8 e non segni, nessuno te lo dovrebbe rinfacciare. E invece da me tutti si aspettavano che mi infilassi in area e trafiggessi il portiere. Li avevo abituati troppo bene, pensavo. E li odiavo. Anche i miei fan. Anzi, sopratutto loro. Quelli che mi dicevano: Non ti preoccupare Alfie, il goal arriverà. Stai sereno, stai tranquillo. Fottetevi, pensavo. Che cazzo ne sapete voi! E anche Dupont, il presidente della squadra, che davanti ai giornalisti mi metteva la mano attorno alla spalla e sorrideva e diceva E’ il nostro ragazzo, è cresciuto nelle nostre giovanili. La nostra bandiera. Il goal non arriva? Arriverà! E io pensavo In culo alla tua squadra, in culo alle giovanili, e toglimi quel cazzo di braccio d’intorno alla spalla. Perché intanto mia moglie se n’era andata, i bambini se n’erano andati e di tutto il resto non me ne fregava un beneamato. Però non dicevo niente, stavo davanti ai giornalisti, lo lasciavo mettermi la mano sulla spalla, dire tutte quelle stronzate, e io, non che sorridessi, ma non dicevo niente, lo lasciavo fare come avevo sempre lasciato fare. Gli altri, le cose, la vita.

E Jackie, il povero Jackie, quante gliene ho fatte vedere; Jackie che mi aveva proposto di passare un po’ di tempo da loro. Con lui e Jasmine, sua moglie, e i ragazzi. Ma io no me la sentivo. Mi faceva male vederli tutti quanti insieme. Mi chiedevo perché io no? Ma poi mi chiedevo Perché io no, anche guardando semplicemente una persona felice, un passante per la strada, un tipo che comprava le bistecche dal macellaio. Lo guardavo attraverso i vetri del negozio e mi dicevo Perché io no?
E poi c’era quella voce. Che quando prendevo il pallone e puntavo la porta avversaria sentivo che mi diceva Dove vai, Alf, dove cavolo stai andando? Cosa vuoi fare, che la sbagli, che te la prende. Sicuro come la Madonna il portiere te la prende. Correvo e la sentivo, come sento te adesso, te lo giuro su Dio,sentivo questa voce che mi diceva che non ce l’avrei fatta. Mi cagavo sotto. Era proprio paura, non ho un altro modo per dirlo. Gesù, voglio dire, ero terrorizzato. Così quando arrivavo davanti al portiere il piede era contratto, trattenuto, e il tiro nasceva morto; il pallone rotolava pateticamente a fondo campo, accanto alla porta.

Mi giravo, i miei compagni non mi stavano guardando, erano già rientrati alle loro posizioni. Bravi soldatini, loro. Allora guardavo Bradbury e lui mi fissava con uno sguardo interlocutorio come se si stesse chiedendo cosa avrebbe dovuto fare con me. Fino a quando un giorno non lo fece. Era il trentesimo del primo tempo, giocavamo contro il Prestonville, e mi sento chiamare. Mi giro e Thompson mi fa segno indicando la panchina, allora mi volto e c’è Norman Johnson a bordo campo pronto a entrare e il numero 8 alzato alto sopra la testa del quarto uomo. Non mi fece male. Anzi, mi sentii sollevato. Qualcuno aveva preso quella decisione per me. Uscii e andai a infilarmi sotto la doccia. Ricordo che scendeva acqua calda e che rimasi sotto un tempo indefinito, e che piansi. Ma non per dolore, né per liberazione. Era semplicemente la sola cosa che mi era rimasta da fare. Giocai ancora una mezza dozzina di partite. Poi Dupont mi chiamò in ufficio. C’era anche Bradbury. Paul era seduto su una poltrona. Letteralmente cascato dentro, e non mi guardava; guardava una roba anti-stress che teneva tra le mani. Dupont mi disse “Io ti ho protetto figliolo, cristo se ti ho protetto. Sono mesi che i giornalisti vogliono mangiarti vivo, e io ho fatto di tutto per impedirglielo, ma tu devi cambiare china. Capisci?”

Io non rispondevo, guardavo fuori dalla finestra, oltre le veneziane, si vedeva un albero di eucalipto che muoveva le sue piccole foglie allungate, e pensavo Perché io no? Perché anche quell’albero ha l’aria di essere
“Ma mi stai ascoltando?” mi disse Dupont.
Io lo guardai senza rispondere mentre pensavo alle foglie di eucalipto.
“Se c’è una cosa che ho capito nella vita,- continuò- e non ne ho capite molte, ma una l’ho capita di sicuro, ragazzo mio. Se c’è una cosa che ho capito nella vita è che bisogna avere palle. Ci vogliono palle per giocare a calcio, palle per essere sposati, palle per avere il cancro, palle per pagare le bollette, palle per alzarsi tutte le mattine e lottare contro il mondo, ci vogliono palle per essere vincenti, e- sentimi bene- ci vogliono palle anche per essere perdenti. Ci vogliono palle. Lo capisci?”
“Ci vogliono palle”,  gli dissi.
“Esatto. Palle, ci vogliono.”
“Ora la questione è un’altra,” intervenne Bradbury. “Tu, le palle, ce le hai?”
Aspettai un attimo, prima di rispondere. In quell’attimo in cui sentivo le foglie dell’eucalipto e tutto quanto il resto e pensavo a cosa avrei dovuto dire.
Ma poi “No,” gli dissi. “Non credo.”
I due si guardarono come se quella risposta li avesse completamente disorientati. Come fosse stata l’ultima cosa che si sarebbero potuti immaginare. Poi Dupont si schiarì la voce, e Bradbury disse “Be’, per me questo è quanto.”
“Va bene ragazzo, puoi andare,” mi disse Dupont. E io uscii e non mi sentii né meglio né peggio. Mi mandarono in prestito al Fonwalla, una squadra di seconda divisione, ma le cose non migliorarono. Così a fine anno non mi rinnovarono il contratto e mi ritrovai senza squadra.

Tornai a vivere da mio padre. Mia madre era morta. Tornai da lui. Non avevamo mai avuto un gran rapporto. Lui era un tipo solitario, silenzioso, e io lo ero diventato forse anche più di lui. Mangiavamo in silenzio. Lui aspirava la sua minestra dal cucchiaio. Poi si scostava dal tavolo e diceva «Be’, io vado a dormire», e si alzava e andava a dormire. E io restavo ancora lì, seduto al tavolo, intorno alla luce della lampadina.
Se dovessi raccontarti la mia vita negli ultimi vent’anni, direi che ha girato per lo più attorno a quella
lampadina.”

Questa fu l’ultima intervista rilasciatami da Alfie Freeman, qualche mese prima che due ragazzini in bicicletta lo trovassero morto, tra l’erba alta, in mezzo alla campagna sotto a un melo. Indossava la sua vecchia maglietta amaranto col numero 8 stampato in rilievo sulla schiena. E forse è per quello che conservo ancora, da qualche parte, in casa, un rullino su cui è impressa una sua rete al Peacock Town di quando aveva diciott’anni. La fotografia è presa da dietro la porta del Peacock e, tra le maglie della rete, si vede il portiere a terra girato verso il pallone che ha superato al linea bianca. Il portiere ha un’espressione indecifrabile, ma potrebbe essere paura. Sullo sfondo, invece, c’è Paul Bradbury in ginocchio che lancia un grido di vittoria, e Alfie Freeman a centro aerea; da solo come è sempre stato: i difensori abbandonati chilometri e chilometri indietro, i compagni, ancora nella loro metà campo. Uno dei suoi contropiedi micidiali. Ha il braccio sollevato, Freeman, in un’esultanza entusiasta di chi può conquistare il  mondo. Ha il braccio sollevato, gli occhi brillanti e un gran sorriso. Alfie Freeman a diciotto anni.

Francesco Scarrone



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