Abedi Pelè si appresta a calciare il calcio d’angolo. Va con il sinistro, il corner è quello di destra. Parte una parabola corta, sul primo palo. Nel bel mezzo di un fitto bosco di maglie rossonere, spunta la testa di Basile Boli da Abidjan. Colpisce senza staccare i piedi da terra: 1-0. E’ il risultato che sancirà la vittoria dell’Olympique Marseille sul Milan e segnerà il punto più alto nella storia calcistica di un club francese in Europa. Con buona pace dei petrodollari qatarioti e del Paris Saint Germain.
Francesco Totti, per me, c’è sempre stato. Era poco più che un ragazzino quando mi innamorai della Roma. Fu un giorno bellissimo e triste, tipicamente giallorosso: erano i quarti di Coppa Uefa, avevamo perso 2-0 a Praga contro lo Slavia. Andammo sul 2-0, poi ai supplementari segnammo il terzo gol, ma a pochi minuti dalla fine un tiraccio di un ceco ci buttò fuori. E io, per la prima volta, piansi per la Roma. Era in campo da titolare due settimane dopo, quando convinsi mio padre a portarmi allo Stadio Olimpico: giovane diciannovenne di belle speranze svezzato da Mazzone, fornì un assist a Moriero e vincemmo 2-1 e mentre tornavo di casa mi sentivo il bambino più felice del mondo. Avevo visto la Roma, avevo visto la Sud, avevo sentito i cori e i petardi e mi si erano drizzati i capelli alla base del collo.
Concorderete con me che undici anni sono piuttosto pochi per diventare calcisticamente adulto. Dovresti essere ancora in quell'età in cui, ogni estate, la tua squadra potrà vincere lo Scudetto, anche se ne ha vinti due in un secolo e tu, pur vivendo a venti minuti da Firenze, hai percepito che non dev'essere proprio la prima della classe già effettuando una rapida conta sulle fedi dei compagni di classe. Eppure io diventai calcisticamente adulto a undici anni, nell'estate del 1990, mentre spensierato avevo appena terminato una di quelle partite a pallone tra bambini che potevano occupare, per noi dell'epoca prima di Internet e YouTube, interi pomeriggi. “Hai visto Baggio?”, mi chiese mio padre. Ed era chiaro che non mi chiedesse se lo avevo visto lì, nei dintorni della scuola, magari mandato a scovare qualche talento per la Fiorentina, così come immaginavo facessero i calciatori dell'epoca. Il timore che fosse quello che temevo, che tutti temevamo, divenne realtà a casa, guardando il titolo dell'edizione sportiva de “La Nazione”.
C'è una leggenda nel calcio che, come tutte le leggende, nasce da un fondo di verità. La credenza popolare è la seguente: se una finale si decide ai rigori, sbagliare il primo è spesso di buon auspicio. La Roma lo sa bene, perché il 30 maggio del 1984 il primo rigore il Liverpool lo sbagliò, ma alla fine si portò via la Coppa dei Campioni. E lo stesso capitò alla Steaua contro il Barcellona due anni dopo, nella peggior serie di tiri dal dischetto che la storia del calcio ricordi (solo due, entrambi dei romeni, a segno su un totale di otto calciati).
Nelle favole che ci leggevano da bambini, il Principe alla fine, in un modo o nell'altro, riusciva sempre ad avere la meglio: sconfiggeva il mostro cattivo che teneva prigioniera la Principessa, la liberava dall'incantesimo con un bacio e, infine, la sposava. Poi, con il passare degli anni, abbiamo imparato che le cose quasi mai vanno così, nel mondo reale: la vita ci ha insegnato che le storie d'amore terminano con la stessa facilità con la quale sono nate; senza un perché o un percome. Succede e basta. Forse perché non esistono Principesse come quelle che immaginavi a quattro anni, né draghi o orchi dalle cui grinfie trarle in salvo; perché non cavalchi un cavallo bianco e non puoi contare sull'aiuto di un Mago. Eppure qualcosa rimane, al termine di una storia d'amore: il magone, forse, oppure il rimpianto; magari il rancore, o la semplice consapevolezza che, pur con tutti gli sforzi, non sarebbe potuta andare diversamente. Nella favola che andiamo a raccontarvi, ad esempio, il finale lascia l'amaro in bocca e gli occhi pieni di lacrime, e forse è proprio questo che la rende così bella.
Per fare arte devi dare le spalle alla vita. Non ti puoi accontentare di fare come tutti, di essere come tutti. Non ti puoi compiacere nel percorrere una linea retta, senza incroci, senza brusche virate, senza momenti di incertezze nel decidere quale strada intraprendere. Non puoi correre pensando che l’obiettivo da raggiungere sia sempre di fronte a te. A volte è di lato, altre volte è in alto. Molto spesso è alle tue spalle e non te ne accorgi perché non lo vedi. Ma non serve vederlo. Basta sentirlo. Lungo la schiena, come un brivido di qualcosa che sta per accadere. Per andare da A a B, ti hanno già insegnato, c’è un’unica via logica, la più veloce. Non percorrerla. La via più veloce è banale, è scontata, è soporifera.
Volare non è poi così difficile. Solo che bisogna prendere la rincorsa, correre a più non posso, spingere sulle gambe e sentire il corpo che comincia a librarsi in aria. Prima un braccio, poi la testa, l’altro braccio, il busto, il bacino, le gambe, fino a quell’ultimo piede che si stacca dal terreno. Tallone, arco plantare e dita. Tutto in una sequenza perfetta. Non bisogna sbagliare nemmeno un passaggio, altrimenti non si vola più. Si corre e basta.
Il cancello di ferro cigola sui vecchi cardini, rompendo il silenzio bianco privo di suoni. La ghiaia scricchiola sotto i piedi, avanzando nel piccolo ellisse protetto dai cipressi, e nell’aria, indefinito, avverti improvvisamente un profumo di rose. Sono piante che resistono al freddo, tenaci alle intemperie. Le volle piantare qui la poetessa Elizabeth Barrett Browning il cui monumento funebre emerge, decorato dall’immagine di una lira, nell’atmosfera ovattata e onirica. Eppure poco sotto esplode la cacofonia di Firenze e dei suoi viali di circonvallazione saturi di veicoli. Ma il cimitero degli inglesi in Piazza Donatello è un’isola, un grumo di pace in mezzo al rumore. Nessuno si preoccupa se è aperto o chiuso, quali sono gli orari per poterlo visitare, e sopratutto se ci sono orari. Nessuno forse sa che c'è, nonostante le tombe si vedano molto bene anche da fuori, infisse in una collinetta simile a quella di Spoon River, che d’inverno si perde nel buio e d’autunno nella foschia. Sarà per via che siamo un po’ superstiziosi e abbiamo paura dei morti.
Undici metri. Undici metri e quindici minuti, le coordinate spazio-temporali che delineano lo scenario in cui si muove Liam Brady. Sarà lui, il numero 10 bianconero, a calciare il rigore decretato dall'arbitro Pieri di Genova, intorno al quale si inizia a diradare il capannello di proteste inscenato dai giocatori del Catanzaro. Manca un quarto d'ora alla fine del campionato, e, con la Fiorentina ferma a Cagliari sullo zero a zero, il suo tiro potrebbe essere decisivo. Se la palla entra, con ogni probabilità a Torino partiranno i caroselli per il ventesimo scudetto. La seconda stella, portata in dono alla Vecchia Signora da quel condottiero silenzioso, professionista esemplare e "geometra" impagabile, arrivato in Italia in punta di piedi e con lo stesso stile pronto ad andarsene.