Gli abitanti di Santa Marta, che quotidianamente e per i motivi più disparati passano davanti all’Estadio Eduardo Santos, osservano la statua posta a pochi metri. Si fermano, sospirano, sorridono e proseguono il loro cammino. Anche il turista europeo, che in quella terra può godersi contemporaneamente le bellezze della Sierra Nevada de Santa Marta e le splendide spiagge, avvolte dallo splendore del Mar dei Caraibi, passando da quelle parti non può permettersi di restare indifferente. Non ha bisogno di chiedersi nulla riguardo all’identità del soggetto rappresentato, né tantomeno il perché della sua presenza. Lo riconosce subito, perché il fascino espresso da quell’enorme chioma bionda e riccioluta e quei baffi ingombranti in Colombia rispondono a un solo nome, che per anni ha affascinato e fatto sognare l’intero Paese sudamericano.
Eppure, tra l’abitante di Santa Marta e il turista c’è una differenza abissale. Quest’ultimo difatti spesso limita Valderrama ad una sorta di icona pop, allo stesso tempo espressione e prigioniero di uno stile inconfondibile, la cui popolarità ne ha costantemente oscurato le qualità calcistiche. Un automatismo tutto sommato comprensibile, per un giocatore che in Europa si è visto veramente poco e senza lasciare tracce indelebili. Tre stagioni in Francia, seppur vissute in crescendo, e pochi mesi al Valladolid, dove cercò di rilanciarsi insieme al suo mentore Maturana e ai compagni di Nazionale, Higuita e Alvarez, non furono certo sufficienti a liberare il calciatore dal bizzarro personaggio che puntualmente dominava la scena.
È per questo che chi abita a Santa Marta, come ogni colombiano che si rispetti, quando passa davanti a quella statua emette un sospiro. Perché il suo ricordo non si esaurisce in un’estetica geniale e fuori dagli schemi, in quel contrasto eccentrico tra il biondo dei capelli – inizialmente naturali, poi tinti – e il nero dei baffi, arricchito da una collezione di braccialetti, dalla maglietta fuori dai pantaloncini e dai calzettoni abbassati. Al contrario, nella sua testa l’immagine di Valderrama si proietta in quell’incedere lento e parsimonioso, che, come ha scritto Fabio Poveda, «sembra scadere nella disattenzione», raffigurando quel giocatore messo in campo per dare ordini, per guidare i compagni e deliziare il pubblico con la sua arte, «un compendio di figure geometriche arricchito da passaggi millimetrici e grandi finte».
I colombiani sospirano perché riconoscono in Valderrama l’incarnazione della speranza sportiva di un Paese bellissimo, massacrato da corruzione, narcos e diseguaglianza sociale. Vedono in lui il leader che ha guidato la Nazionale al Mondiale Italiano, un ritorno sul palcoscenico più importante dopo ventotto anni di assenza. Valderrama c’era, con la testa, quella che, commentò Maturana «in campo permetteva alla Colombia di colpire la psiche degli avversari», ma anche e sopratutto con i piedi, così deliziosamente storti, fondamentali, diceva il grande Eduardo Galeano, «per nascondere meglio il pallone».
Se lo ricordano bene, impegnato in quella danza con cui ipnotizzò i centrocampisti tedeschi nei secondi conclusivi dell’ultima sfida della fase a gironi. “El Pibe” che dà e riceve il pallone, che coglie l’inserimento di Estrada a sinistra e lo segue con lo sguardo, mentre il piede prende vita e disegna l’unica traiettoria in grado di aprire a Freddy Rincon la strada verso il gol. Kopke rimane freddato, il conto aperto da Littbarski viene pareggiato, e i Cafeteros giungono ad una ormai insperata qualificazione agli ottavi di finale.
Ma il ricordo più bello, quello che commuove e rende orgogliosi, riporta alla serata che perfino Gabriel Garcia Marquez ha inserito, insieme allo scoppio de La Violencia e alla pubblicazione di Cent’anni di solitudine, nei tre eventi più significativi della storia colombiana. L’essenza di quello spirito di rivalsa chiamato Carlos Valderrama rimanda alla sera del 5 settembre 1993, quando la Colombia si qualificò al Mondiale americano distruggendo la ben più quotata Argentina con un perentorio cinque a zero. Di nuovo quel passo lento ed elegante che domina il centrocampo, ancora un tocco preciso e disincantato che premia l’inserimento del solito Rincon e lo mette nella condizione di ammutolire il Monumental di Buenos Aires.
Tuttavia, c’è un cittadino colombiano che alla vista di quella statua vive una sensazione che in nessun modo può essere paragonata a quanto raccontato finora. Perchè quella maestosa figura gli fa rivivere un ricordo intimo e personale, lo riporta al centro di un Metropolitan di Baranquilla pieno e festoso, gli fa risentire quelle 60.000 voci che all’unisono gridano il suo nome. Quella statua lo riporta alla sera del 1 febbraio 2004, l’unica volta in cui quello sguardo sempre serio tradì un sorriso e una lacrima, mentre quelle gambe improvvisamente perdevano tutte le loro certezze e iniziavano a tremare. Si ricorda di quando, diverse ore dopo la fine della partita, uscì dagli spogliatoi per l’ultima volta nella sua vita, trovando intorno a se migliaia di persone che lo attendevano per omaggiarlo ancora. Un bagno di folla, una spontanea manifestazione d’affetto che non guarda ai trofei vinti, ma viene riservata solamente a coloro i quali riescono ad entrare nel cuore delle persone. Così, ogni volta che passa vicino a quella statua, Carlos Valderrama la guarda, sospira e si emoziona.
Carlo Perigli
@c_perigli
Ideatore di progetti a tempo perso e appassionato di film in serbo-croato con sottotitoli improponibili, parlerebbe per ore di calcio, di politica e di Jugoslavia. Se poi riesce a far entrare tutto nello stesso discorso, preparatevi al peggio. Forse ha aperto Storie del Boskov perché nessuno è più disposto ad ascoltarlo.