Alzo le mani. Mi volto a destra e a sinistra. Sono disarmato, sono sconfitto, sono sotto accusa. Non riesco a mandare la palla in rete. Una maledizione. Un incantesimo. Ogni passaggio è fuori misura, ogni appoggio scarso, ogni tentativo di tiro goffo. Sono in mezzo al campo, sperso e solo. Alzo gli occhi e vedo il pubblico, i tifosi, le bandiere che sventolano in un’onda minacciosa. Mi odiano. Lo sento, lo percepisco. Mi odiano. Sono un attaccante che non serve a nulla, incapace, inconcludente. Come faccio ora? Cosa faccio? Come riconquistare la loro fiducia e in fondo anche la mia? Le mie braccia si alzano al cielo, il mio corpo ruota di trecentosessanta gradi. Chiedo scusa. Chiedo scusa per i passaggi sbagliati. Chiedo scusa per i movimenti lenti. Chiedo scusa per i gol mancati. E improvvisamente il mio corpo torna caldo, pronto a scattare, a farsi trovare al posto giusto. Intercetto il passaggio del mio compagno e la palla va in rete. Da bozzolo a farfalla. Da incapace a idolo. Da sconfitto a vincitore.
Quel caldo al corpo non ha più smesso di avvampare. Mi ha preso pian piano ogni centimetro. Dai piedi che avevano mandato la palla in rete, fin sulle braccia che si erano alzate in alto a chiedere attenuanti, per arrivare alla testa e agli occhi. Ora è tutto buio e sento solo le tue parole. «Torna». Ma sono bloccato, ora come allora. La paura mi terrorizza. L’oscurità mi accerchia e i demoni non mi lasciano mai solo. Buio, buio e solo buio. Sono fermo nel salone di casa. Dovunque mi volti inciampo e sbatto. Non riesco a mettere tre passi di fila. E la tua voce, oh la tua voce, che tortura per me. Ma col passare dei giorni diventa più fioca fino a scomparire del tutto. Eppure non mi sento più libero, non mi sento più tranquillo. Mi sento solo odiato, ora come allora.
E quindi chiedo scusa. Chiedo scusa per i treni non presi. Chiedo scusa per i dubbi paralizzanti. Chiedo scusa per gli abbracci mancati. Il corpo con calma si raffredda, fino a diventare ghiacciato. Ma mi muovo, finalmente, c’è luce e mi incammino verso di te. Hai gli occhi felici, figlio mio, perché finalmente sono tornato. Siamo insieme. Chiedere scusa è coraggio e amore.
Ho raccontato di Carlo Petrini, calciatore tra gli anni sessanta e settanta. Ha giocato con il Lecce, il Genoa, il Milan, la Roma e il Bologna solo per citare alcuni dei club. L’episodio di cui si parla nel racconto è avvenuto quando Petrini militava con la Roma e precisamente durante la partita con la Sampdoria. Dopo una serie di clamorosi gol mancati e passaggi sbagliati, il calciatore alza le mani verso il pubblico e chiede scusa. Pochi minuti dopo segna il gol che fa vincere la Roma e il rapporto tra Petrini e tifoseria torna a essere idilliaco. Pochi anni dopo, torna agli onori della cronaca per il suo coinvolgimento nel giro di calcio scommesse e per la denuncia che lo stesso calciatore fa nei confronti di un sistema di doping che durante quegli anni aveva portato alla morte molti giocatori. Ma il fatto più eclatante è la malattia del figlio Diego, colpito da un tumore al cervello e in fin di vita, che affida ai media il suo appello per poter riabbracciare il padre che nel frattempo, travolto dai debiti, era fuggito in Francia. Petrini non torna, terrorizzato dalla possibilità di essere ammazzato e Diego muore. Qualche anno dopo affiderà a un libro di poesie questo momento drammatico della sua vita. Una forma grave di glaucoma lo colpisce poco dopo, tornato in Italia, e lo porta alla quasi completa cecità. A detti dei medici molto probabile è la correlazione tra glaucoma e pratiche di doping ricevute durante gli anni da calciatore. Muore nel 2012 a 64 anni. Da leggere assolutamente “Nel fango del dio pallone” (KAOS edizioni) dove Petrini denuncia le forti pratiche di doping di quel tempo.
Moretta di nome e di fatto è la frase che la perseguita da quando è bambina. Nomen omen. Si è sempre immaginata con un cesto di more in testa, come una moderna e più gustosa Medusa. La sua fantasia un po’ onìrica, oggi, si è riversata nello sport. I campioni diventano eroi, le loro vittorie o sconfitte gesti epici. Perché lo sport è una favola a occhi aperti.