Solo arancio. A perdita d’occhio. E solo profumo. Così intenso da penetrare in ogni piccola fessura della più piccola casa del più lontano paese. Il campo di tulipani che ho davanti agli occhi è così: perfetto, preciso, esatto
È bastato un taglio. Sulla punta dell’indice destro. Niente di doloroso, niente di problematico o preoccupante. Eppure quella piccola ferita aveva cambiato la vita di Tommaso per sempre. La goccia di sangue che ne uscì, infatti, era nera. Non rosso scuro, non sangue pesto, non violacea. Nera. Il respiro gli si era bloccato in gola, gli occhi fissavano quella goccia che dall’indice colava sul palmo della mano per poi scivolare lateralmente fino a creare una piccola macchia sul pavimento. Non era riuscito a muoversi per almeno un paio di minuti. Immobile solo a guardare, fissare, domandarsi, capire.
Alzo le mani. Mi volto a destra e a sinistra. Sono disarmato, sono sconfitto, sono sotto accusa. Non riesco a mandare la palla in rete. Una maledizione. Un incantesimo. Ogni passaggio è fuori misura, ogni appoggio scarso, ogni tentativo di tiro goffo. Sono in mezzo al campo, sperso e solo. Alzo gli occhi e vedo il pubblico, i tifosi, le bandiere che sventolano in un’onda minacciosa. Mi odiano. Lo sento, lo percepisco. Mi odiano. Sono un attaccante che non serve a nulla, incapace, inconcludente. Come faccio ora? Cosa faccio? Come riconquistare la loro fiducia e in fondo anche la mia?
Ho un numero limitato di respiri. Di sospiri poi, ancor meno. Li faccio tutti lentamente, con cadenza regolare. Dispiaceri o piaceri per me sono proibiti. Se la mia vita fosse tracciata come quando si fa un elettrocardiogramma, sarebbe piatta. Nessun picco, né in alto né in basso. La chiamano tranquillità. Quando gioco con i miei cugini, gli unici ammessi a casa mia, e solo per poche ore, mia mamma mi ripete all’infinito di stare calmo, di non eccitarmi troppo, di non lasciarmi trasportare dalle emozioni. E loro, poveri, sono istruiti allo stesso modo. Si annoiano, lo vedo, lo percepisco.
Per fare arte devi dare le spalle alla vita. Non ti puoi accontentare di fare come tutti, di essere come tutti. Non ti puoi compiacere nel percorrere una linea retta, senza incroci, senza brusche virate, senza momenti di incertezze nel decidere quale strada intraprendere. Non puoi correre pensando che l’obiettivo da raggiungere sia sempre di fronte a te. A volte è di lato, altre volte è in alto. Molto spesso è alle tue spalle e non te ne accorgi perché non lo vedi. Ma non serve vederlo. Basta sentirlo. Lungo la schiena, come un brivido di qualcosa che sta per accadere. Per andare da A a B, ti hanno già insegnato, c’è un’unica via logica, la più veloce. Non percorrerla. La via più veloce è banale, è scontata, è soporifera.
Volare non è poi così difficile. Solo che bisogna prendere la rincorsa, correre a più non posso, spingere sulle gambe e sentire il corpo che comincia a librarsi in aria. Prima un braccio, poi la testa, l’altro braccio, il busto, il bacino, le gambe, fino a quell’ultimo piede che si stacca dal terreno. Tallone, arco plantare e dita. Tutto in una sequenza perfetta. Non bisogna sbagliare nemmeno un passaggio, altrimenti non si vola più. Si corre e basta.
Il ferro fuso e bollente entra negli stampi già preparati. Scorre irradiando calore tutto attorno, si deposita dentro gli angoli più nascosti della sagoma e si raffredda di colpo. Gli operai si avvicinano, picchiano forte con un martello, aprono il sarcofago ed eccoli lì, dei giocatori perfetti: alti, forti, robusti, energici e instancabili. Non sentono dolore. Non sentono fatica. Non sentono tensione. Ed è tutto quel che sentono: nulla. Entrano in campo e compiono il loro dovere. Corrono e segnano. Non hanno attimi di difficoltà o momenti di debolezza. Sono i giocatori perfetti, quelli che ogni allenatore vorrebbe nella propria squadra. Con il fisico compiuto e compatto, come solo il ferro sa plasmare.
Quest’amore è diverso. Quest’amore si nutre di distanza, di contemplazione, di sospiri, di vento e di attesa. Álvarola guarda. Costantemente. Mentre è sui banchi di scuola, il suo sguardo è rivolto a lei. La osserva, la studia nei suoi minimi particolari. Potrebbe ridisegnare millimetro per millimetro le sue linee, i suoi angoli e le sue morbidezze. Potrebbe scrivere uno a uno i nomi di chi le è passato accanto, chi l’ha sfiorata, chi ha giocato con lei, chi ha riso o pianto al suo fianco.
«Lo conosci il mare?» «Certo che lo conosco» «E come fai a dirlo con certezza?» «Lo cavalco tutti i giorni, con la mia tavola da surf» «E quindi lo conosci?» «Sì, te lo ripeto. So quando arrivano le onde, quelle grandi, quelle che ti fanno andare a tutta velocità e sentirti il vento forte sul viso» «Di che colore è il mare?» «Ma che domanda? È chiaro che è blu, ti potrebbe rispondere anche un bambino. Forse anche chi il mare non lo ha mai visto in vita sua» «Risposta sbagliata»