Se pensate che il 7-1 subito dal Brasile contro la Germania allo scorso Mondiale sia stata un’umiliazione, non avete mai sentito parlare del Maracanazo e di Alcides Ghiggia. Perchè se la roboante sconfitta del 2014 nasce e muore nell’universo calcistico, la debacle carioca maturata nella finale del 16 luglio 1950 no, quella è un’onta che non si cancella, che coinvolge e sconvolge un paese intero, gettandolo nell’umiliazione più profonda. E non solo perchè ad alzare la Coppa in quell’occasione fu l’Uruguay, storicamente considerato dai campioni carioca come una Nazionale di Serie B, una sorta di cugino non particolarmente sveglio, che, per quanto possa impegnarsi, non potrà mai arrivare ad essere considerata un degno avversario. No, nel Maracanazo c’è l’umiliazione di un Paese che festeggiava la vittoria del Mondiale “casalingo” già dal giorno prima della partita. Ma quale finale – dicevano – quella sera ci sarebbe stata solo una premiazione, preceduta da una simbolica passerella. utile solo per incoronare i futuri campioni del Mondo.
Nessun dubbio, nessuna ipotesi alternativa, neanche per scaramanzia, tanto che fin dalla mattina del 16 luglio l’intera città di Rio de Janeiro era stata tappezzata con cartelloni celebrativi recanti la scritta “Homenagem aos campeões do mundo – Omaggio ai campioni del mondo“; dello stesso tono il titolo che a caratteri cubitali compariva sulla prima pagina del “O Mundo”, mostrando una foto dell’undici carioca. Nessuno voleva attendere quella che era considerata una semplice formalità. Non i 199.854 spettatori – un record tuttora imbattuto e difficilmente battibile – né il generale Angelo Mendes de Morais, prefetto del Distretto Federale, che pochi minuti prima della gara pronunciò un breve quanto emblematico discorso. “Voi, brasiliani, che io considero vincitori del Campionato del Mondo. Voi, giocatori, che tra poche ore sarete acclamati da milioni di compatrioti. Voi, che avete rivali in tutto l’emisfero. Voi che superate qualsiasi rivale. Siete voi che io saluto come vincitori!”
Anche la premiazione era già stata preparata nei minimi dettagli. Migliaia di cartoline commemorative erano state fatte stampare dalla Federazione brasiliana, così come erano pronte 22 medaglie d’oro, che le autorità politiche avrebbero dovuto consegnare ai calciatori. Un’imponente guardia d’onore era pronta a creare un maestoso corridoio, che dall’uscita del tunnel avrebbe dovuto accompagnare al centro del campo i rappresentanti del governo e Jules Rimet. Dopo la consegna della coppa nelle mani del capitano carioca, il presidente della Fifa avrebbe pronunciato il suo discorso, già pronto e rigorosamente in portoghese, per omaggiare i freschi campioni del mondo.
Premesse obbligatorie, necessarie per capire la portata dell’umiliazione che maturerà novanta minuti più tardi. Una delusione che si fa ancora più cocente se si considera che è proprio il Brasile ad andare in vantaggio, al secondo minuto della ripresa. Il Maracanà è una bolgia, ogni minuto che passa i festeggiamenti si amplificano. Al 66′ però, Ghiggia va sulla fascia, salta Bigode e serve Schiaffino, che pareggia. Poco male, al Brasile, in virtù del girone attraverso il quale all’epoca si decideva il vincitore, basta un pari. La Coppa non è assolutamente in discussione. Quando mancano ormai 15 minuti alla fine Jules Rimet entra negli spogliatoi, per riuscirne pochi minuti dopo con la coppa in mano e il discorso in testa.
“Mentre attraversavo i corridoi – raccontò l’allora presidente della Fifa – il tifo infernale si interruppe. All’uscita del tunnel, un silenzio desolante dominava lo stadio. Nè guardia d’onore nè inno nazionale, nè discorso, nè premiazione solenne. Mi ritrovai solo, con la coppa in mano e senza sapere cosa fare“. Già, perchè a undici minuti dalla fine Ghiggia riesce di nuovo a infilarsi tra le maglie della difesa brasiliana, supera Barbosa e gonfiando la rete spegne all’improvviso il frastuono del Maracanà, con l’undici carioca disorientato e incapace di reagire fino al fischio finale. Al termine della partita, come già anticipato dai ricordi di Rimet, i festeggiamenti non ebbero luogo, tanto che la consegna della coppa avvenne quasi di nascosto. Su quello che accadde dopo, esistono tuttora versioni differenti. Secondo alcuni, la Nazionale uruguaiana fu messa di corsa su un aereo verso Montevideo, con Ghiggia aggredito e costretto a tornare a casa malconcio e con le stampelle. Stando invece al racconto del mediano celeste Obdulio Varela, la cui versione è stata messa nero su bianco da Osvaldo Soriano, le conseguenze furono meno violente, con il centrocampista uruguaiano che finisce in un bar insieme ai tifosi brasiliani, ognuno ad affogare le proprie disperazioni nell’alcool.
Ma, sventure e contraddizioni a parte, è innegabile che quella serata trasformò Ghiggia in un’eroe popolare – non nazionale, considerate le parole al vetriolo lanciate da Varela contro il comportamento tenuto dalla Federazione – nonostante le sole 12 partite disputate con la maglia celeste.Una carriera lunghissima, tra Montevideo e Roma, conclusa alla “veneranda” età di 42 anni. Appesi gli scarpini al chiodo, Ghiggia uscì dal mondo del calcio per ritirarsi a vita privata, finendo per stabilirsi in un’anonima periferia di Montevideo. Da quel poco che sappiamo di lui, la scarsa notorietà non gli pesava, anche se provava fastidio nel vedere che ci si ricordasse di lui solamente il 16 luglio di ogni anno, a fronte di oltre 20 anni di dribbling ubriacanti e fantasia sudamericana. Eppure, se 364 giorni nessuno lo disturbava, una volta l’anno Ghiggia tornava a subire gli effetti di un’asfissiante marcatura a uomo. Quest’anno però, ha voluto liberarsene definitivamente, proprio nel sessantacinquesimo anniversario del Maracanazo. Un ultimo dribbling, fulmineo e inaspettato come gli altri, e Ghiggia se n’è andato per l’ultima volta, mentre a Montevideo riecheggiano ancora le sue parole: “A sole tre persone è bastato un gesto per far tacere il Maracana: Frank Sinatra, papa Giovanni Paolo II e io”.
Ideatore di progetti a tempo perso e appassionato di film in serbo-croato con sottotitoli improponibili, parlerebbe per ore di calcio, di politica e di Jugoslavia. Se poi riesce a far entrare tutto nello stesso discorso, preparatevi al peggio. Forse ha aperto Storie del Boskov perché nessuno è più disposto ad ascoltarlo.