È il 31 agosto 1993, quinta giornata della Bundesliga. L’Eintracht Francoforte sta battendo i rivali del Karlshue per due a uno, quando Toppmoller, allenatore dei padroni di casa, gli fa segno di levarsi la tuta per entrare in campo. «Ora vai dentro e tieni il pallone, dobbiamo guadagnare minuti». Okocha annuisce e si toglie la casacca, con il numero 12 che si scopre sulle spalle. Non è il numero che sognava, ma per ora non gli dà molta importanza. Pensa che la panchina gli stava stretta, che avrebbe voluto giocare dall'inizio, e che nei pochi minuti che rimangono vuole fare di tutto per conquistare la Germania con la sua danza tribale.
I saluti, gli abbracci, gli amici di sempre. I compagni con i quali ha conquistato la Coppa Intercontinentale nel 1992 e quelli con cui ha vinto il Mondiale per club nel 2005. Anche questa serata uscirà presto dalle cronache sportive per accasarsi dove gli compete, per entrare nel mito. O se preferite, ne 'O M1to'. Rogerio Ceni chiude una carriera lunga venticinque anni, costellata di successi, trofei e sopratutto tanto amore per il San Paolo, del quale in più di un occasione si è detto «il più grande tifoso passato in questo club». 1237, partite, 131 reti realizzate, 26 titoli, numeri impressionanti qualunque sia l'ordine in cui vengono letti, ma che allo stesso tempo "nascondono" l'impegno e la fatica necessari a fare di un giocatore una leggenda, a trasformare un portiere in Rogerio Ceni.
Nel giro di un attimo, la sera del 12 aprile 1994 il mondo gli è completamente franato addosso. Quel cartellino giallo, mostratogli dall'arbitro senza troppi complimenti, rappresenta la sentenza definitiva: Ian Wright non giocherà l'eventuale finale di Coppa delle Coppe. Mani in testa e corpo piegato sulle ginocchia, l'attaccante inglese non regge il colpo, e qualche lacrima gli scende sul viso. Provocato per tutta la partita, alla fine ha reagito. Il fallo c'è, il giallo pure, ma i difensori del Paris Saint-Germain lo sapevano, conoscevano i lati deboli del suo carattere e l'hanno provocato. E ci sono riusciti. Il pubblico d'oltremanica non capisce, pensa alla solita scenata della primadonna che non accetta la sacrosanta decisione dell'arbitro. Ma che ne sanno loro cosa significhi veramente essere Ian Wright?
Aveva scelto Pescara anche perché dalla finestra del suo nuovo appartamento poteva provare a vedere il suo Paese, la sua casa Era là, oltre quella lingua d'acqua chiamata Mar Adriatico, bella e affascinante come sempre, madre premurosa di tenere uniti i suoi figli, così diversi e così uguali. Blaz Sliskovic, per tutti Baka, veniva da Mostar, amava la sua terra e amava il mare. Spalato, Marsiglia e ora Pescara, le città costiere gli mettevano allegria. E, tutto sommato, gli permettevano di coniugare il calcio con le altre passioni della sua vita: la notte, i locali, le donne, Baka non poteva farne a meno. Capita quando si è ventenni, in ritiro con l'Hajduk Spalato, e ci si innamora di una ginnasta sovietica. Lì le possibilità sono due: se la testa non sceglie, lo farà il cuore. E Sliskovic su questo non ha mai avuto dubbi, tanto da sparire nel nulla per quasi un anno dietro ad un amore che forse tale non era, ma che era nella sua indole seguire fino alla fine.